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Incontro con Giuseppe
Tornatore
Da: CINEMASESSANTA – n° 3 - 1998
Callisto Cosulich – Di solito quando si
fa un’introduzione critica su un autore si comincia dall’inizio.
Ma in questo caso è meglio cominciare dalla fine, da un film
monstrum che non ha credo precedenti nella fisiologia e nella filosofia
del cinema italiano, come La leggenda del pianista sull’Oceano.
E’ tratto da un breve monologo di Alessandro Baricco, che
fu presentato, se non erro, nel ’94-’95, che a leggerlo
sembra fatto quasi su misura per uno di quei cortometraggi che oggi
circolano di nuovo. Invece, nossignore, Tornatore ne fa un lungometraggio,
e di una lunghezza non abituale, di 2 ore e 40 circa, pur rimanendo
fedelissimo al testo. Si tratta di un film-scommessa. Anche per
il costo di produzione, di circa quaranta miliardi, eccezionale
oggi in Italia; è una cifra americana. Oltretutto, sono miliardi
che si vedono sullo schermo. Quando fai un film ad alto costo, devi
sottostare a certi obblighi: devi fare un film popolare, devi passare
attraverso la trafila di coloro che hanno investito i soldi e che
vogliono intervenire sul prodotto finale. Il film di Tornatore,
invece, non si sottomette a convenzioni, non vuole essere facile;
molti possono considerarlo un film lento e lungo, addirittura ripetitivo;
un film che si prende tutte le comodità. Tornatore, ha fatto,
credo esattamente il film che voleva. Inoltre lo ha sceneggiato
da solo. Non ci sono coautori. Semmai forse coautore è il
musicista, Ennio Morricone, il quale, anche questo è poco
in uso, credo che abbia lavorato con lui dagli inizi del film. Quindi,
si può dire, la musica e le riprese sono andate avanti di
pari passo. Ma chi è Tornatore? E’ un regista molto
discusso, è un regista che spiazza. Io stesso sarei ipocrita
se dicessi che mi sono piaciuti tutti i suoi film. Ho partecipato
anzi a un dibattito televisivo su Nuovo cinema paradiso,
in cui avevo il ruolo del detrattore. Nuovo cinema paradiso
è uno di quei rarissimi film italiani che negli ultimi anni
è riuscito ad avere un’affermazione all’estero.
E non parlo solo dell’Oscar. Il film ha avuto un successo
enorme, a partire dell’America, che poi è stato ripetuto
solamente dal Postino. Se consideriamo la filmografia di
Tornatore vediamo che non è facile trovare un comun denominatore
ai suoi film, temi ricorrenti. Se non aspetti generici, che non
definiscono un autore. Per esempio, la capacità di pensare
in grande. I suoi film, a cominciare dal primo, Il camorrista,
appaiono più “grossi” della normale produzione
italiana. Come nasce al lungometraggio, Tornatore diventa subito
parente dei registi che hanno fatto film di produzione molto impegnativa,
come Leone, come il secondo Bertolucci. Ciò detto, fra i
suoi film notiamo una notevole diversità di contenuto e di
stile. C’è un Tornatore che batte sentieri abbastanza
tradizionali – che sono quelli che gli hanno dato grande successo
– nei film che hanno come tema il cinema, Nuovo cinema
paradiso da un lato, e L’uomo delle stelle dall’altro.
Poi ci sono film più spericolati Il camorrista si
presenta come un film delirante, estraneo del tutto alla traccia
spettacolar-politica italiana, con prodotti notevoli di denuncia
(come certo Damiani, Petri). Ricordava forse alcuni western di Leone,
senza essere mai però una decalcomania. Una pura formalità
è un kammerspiel che si svolge in due o tre ambienti piccoli
e brutti, girato in cinemascope. Un film astratto, criptico, interpretato
da attori stranieri. Anche stavolta si tratta un cinema nato per
non restare a casa propria, per circolare in tutto il mondo. Senza
fare, per questo, un film di genere americano. Non si può
dire mai che Tornatore imiti qualcuno. L’unico film italiano
dell’inizio della stagione ’98-99 che non sia una commedia
con Nuti o con Verdone, che abbia avuto un grande successo di pubblico
è questo film di Tornatore La leggenda del pianista sull’Oceano.
Vorrei chiedere a Tornatore qualcosa sulla lavorazione di questo
film. Un testo smilzo come quello di Baricco, lo ha sviluppato in
una forma quasi sproporzionata rispetto alla traccia iniziale, pur
rimanendogli fedele. E poi vorrei che parlasse della sua collaborazione
con il musicista Morricone che in questo caso, insisto, è
coautore del film.
Tornatore: Molti mi hanno chiesto come mai da
un testo così smilzo sia potuto venire un film di questa
portata. Quando leggo un libro o una sceneggiatura, forse per mio
difetto, non cerco mai di stabilire un rapporto di quantità.
Una pagina può evocare nella mia testa un film o un’intera
sceneggiatura, o una scenetta e basta. Nel caso del testo di Baricco,
quello che mi piacque, a parte la storia in sé, fu l’occasione
che essa mi offriva di operare forse in un modo nuovo rispetto a
un libro. Poco fa Cosulich diceva giustamente: io ho riletto il
libro ma nel film c’è tutto. E’ fedelissimo.
Ed è vero. Però, il film è un’altra cosa
rispetto al libro. Ha una struttura narrativa che non ha niente
a che vedere con il libro. Ciò che mi piaceva del testo,
era proprio il fatto di poter raccontare questa storia facendo emergere
in primo piano un tema che nel testo non c’era. Ed è,
appunto, il tema del raccontare. Il film è centrato sul rapporto
tra uno che racconta o che si trova costretto a raccontare; e chi
fruisce del suo racconto. E sull’evoluzione dell’atteggiamento
di quest’ultimo. Per cui, benché la storia mi piacesse
moltissimo e mi avesse folgorato, la possibilità di procedere
soprattutto per infedeltà al testo, mi coinvolse profondamente.
La cifra epica che nel testo è sottintesa o forse c’è
a dispetto dell’autore stesso (io non credo che Baricco abbia
mai pensato alla cifra epica del suo racconto; anzi, tutt’altro:
il suo è un racconto che tende alla leggerezza, alla semplicità),
e che io invece ritrovavo nella storia di questo personaggio, di
cui veniamo informati dalla nascita alla morte, ha prodotto questo
tipo di sceneggiatura, questo tipo di film. A quel punto, una volta
messa in piedi la sceneggiatura, ho proceduto come procedo abitualmente.
Io cerco sempre di fare ciò che il film mi suggerisce. Sono
convinto che qualunque problema il film ti ponga in qualunque momento
- sia nella fase della lavorazione, sia in quella delle riprese
o in quella successiva - la risposta a ogni problema sia sempre
dentro il film. Se un bel giorno la produzione mi suggerisce di
trasformare l’ambiente di una scena in un altro, perché
quell’ambiente lì non è disponibile, allora
il problema di quella sostituzione ha la risposta risolutiva nel
film. In questo caso a me non andava di fare un film che assecondasse
l’anima claustrofila di Novecento che vive tutta la vita in
un luogo chiuso. Sentivo che non era questa la chiave. Volevo seguire
Novecento, senza aver mai paura di potermi guardare intorno liberamente.
Questa era la direttiva generale. Poi il film si è rivelato
molto ma molto più complicato di quanto io stesso pensassi
all’inizio. Tutti coloro che hanno partecipato alla lavorazione,
hanno avuto immediatamente la sensazione che si trattasse di dover
dare molto. Ma per quanto questa consapevolezza fosse forte, poi
tutti via via finivano per accorgersi che non bastava, che ci voleva
molto di più. E’ stato un film che ha richiesto tantissimo.
Per cui, oggi, devo dirvi, questo confronto fra il testo smilzo
e il film lungo, mi fa un po’ tenerezza.Nel senso che è
vera quella cosa che si dice sempre quando si parla di cinema e
letteratura: il linguaggio cinematografico è una cosa, la
letteratura un’altra. Però spesso, secondo me, si fa
l’errore di dire questo solo come frase fatta e poi di procedere
per vecchie categorie di analisi. Non mi sto riferendo a quanto
ha detto Cosulich. Ma al vecchio dibattito sul rapporto tra cinema
e letteratura. Io sono contento di avere fatto un film che è
fedele a un testo che mi aveva folgorato, ma che poi è fedele
al mio modo di vedere le cose, alla mia fantasia, alla mia libertà
di mettere la macchina da presa dove la fantasia me lo suggerisce.
Cosulich: Si dice molto spesso che il cinema
somiglia più alla musica che alla letteratura. Il tuo film
è proprio un caso in cui la letteratura si trasforma in musica.
Già nella cadenza, nel montaggio, nella misura dell’inquadratura
ho riscontrato un ritmo, parametri che sono musicali anziché
letterari.
Tornatore: Sono d’accordo. Per quanto riguarda
la collaborazione con Morricone per questo film, è verissimo
che si sia trattato di un fatto molto particolare nel nostro cinema.
Ma credo non solo nel nostro, perché non mi pare di conoscere
film per i quali il musicista abbia lavorato per un anno e mezzo
insieme al regista, dall’invenzione del soggetto, alla conclusione
del film. Effettivamente quando ho cominciato ad avere un’idea
chiara del soggetto, la prima cosa che ho fatto è stato di
parlarne con Morricone. Faccio quasi sempre comporre la colonna
musicale prima dell’inizio delle riprese, da Nuovo cinema
paradiso in poi. E spesso, nel 90 per cento dei casi, ho fatto
incidere i temi prima delle riprese. E talvolta li ho usati durante
le riprese. E anche quando non li usavo durante le riprese, avevo
bisogno di sapere che la musica del film era quella. Perché
non mi ha mai affascinato il concetto per il quale la musica in
un film sia qualcosa da sovrapporre all’ultimo momento, un
elemento estraneo che arriva quando tutto già esiste. Forse
per quello che diceva Cosulich, perché il linguaggio della
musica e quello del cinema sono molto più vicini di quanto
non lo siano quello del cinema e della letteratura. Hanno una cosa
in comune il cinema e la musica - e cioè il tempo. Come abbiamo
proceduto con Morricone? Abbiamo discusso a lungo su degli elementi
che la storia ci sottoponeva che erano davvero difficili da risolvere.
Per esempio una frase di Baricco era: “suonava una musica
mai sentita prima”. Oppure: “Si diceva di lui che suonasse
dieci jazz messi insieme”. “Si diceva di lui che suonava
come se avesse otto mani”, ecc. Come far diventare cinema
tutto ciò? Che tipo di articolazione doveva avere la colonna
musicale del film? C’era una linea che era quella del commento
classico. Ma poi c’era la musica, che noi per distinguere
le due linee abbiamo definito realistica, che era la musica suonata
da Novecento, dall’orchestra, dal trombettista. Abbiamo cominciato
a strutturare il piano musicale del film. Contemporaneamente io
andavo avanti col soggetto e la sceneggiatura. Di brani che componevano
la linea realistica del film ce n’erano 33. Ma Morricone ne
ha dovuti comporre, credo, una sessantina, che poi abbiamo selezionato.
Quindi, un lavoro veramente faticoso. Poi, durante le riprese, talvolta,
abbiamo dovuto apportare alcune modifiche. Perché non c’era
soltanto l’uso classico di un playback: un brano musicale,
al pianoforte, che poi un certo attore doveva eseguire in playback.
Talvolta l’attore oltre a dover eseguire questo brano musicale,
parlava, recitava nello stesso momento. Quindi era come se ci fossero
due playback l’uno dentro all’altro. Perché la
linea del testo, del dialogo, aveva un rapporto con la musica. Per
esempio, la scena dell’incontro con il contadino, interpretato
da Gabriele Lavia, è stata stranamente uno dei nodi musicali
del film più difficili insieme all’ultimo brano del
duello musicale, che con Morricone chiamavamo “moto perpetuo”
per intenderci, che è stato realizzato con quattro pianoforti.
E’ stato un confronto continuo. La sceneggiatura era continuamente
consultata, come se avesse una vocazione a diventare partitura;
e viceversa. Un grande problema è stato coniugare la professionalità
di un attore con la sua non conoscenza di uno strumento musicale.
In questo caso, la soluzione è stata che ho dovuto stabilire
in partenza come sarebbero state montate le sequenze più
delicate. Perché non si poteva chiedere a un attore che non
aveva mai suonato il pianoforte, di imparare tutto a un tratto trenta
brani musicali, e tutti per intero. Certo, ha studiato sei mesi.
Questo a un attore si può chiedere. E un attore talvolta
può anche accettare di farlo. Tim Roth lo ha fatto. Però,
è ovvio che per un brano complicato di tre minuti, lui mi
chiedesse sei mesi prima: ma in questo brano, quando si vedranno
le mie mani? Se io non avessi stabilito sei mesi prima quella scena,
non avrei potuto rispondere. Talvolta Morricone è stato chiamato
nel bel mezzo del set perché c’era da risolvere un
problema, un brano musicale, che era stato studiato in funzione
del dialogo, ma poi, al momento delle riprese, il dialogo mi suggeriva
un tempo, un ritmo diverso e quel brano non funzionava. Il musicista
ha lavorato con noi, ha modificato la partitura mentre giravamo.
Cosulich: Tu per questo film hai chiamato un
direttore delle luci ungherese, Lajos Koltaj, e i due attori protagonisti
sono Tim Roth - inglese e Pruitt Taylor Vince, che è un attore
americano molto bravo ma che certo non apre i mercati. Come sei
arrivato a questa scelta di un cast internazionale, che non è
determinata dal testo di Baricco, dove non c’era nessun accenno
su quale sia l’aspetto del pianista e delle persone con cui
ha un rapporto?
Tornatore: In genere quando comincio a pensare
a un film che ho deciso di fare, e mi chiedo quali possano essere
gli attori, le attrici, non mi pongo dei limiti, non stabilisco
in partenza di scegliere solo attori africani o italiani. Per me,
la comunità degli attori del mondo è idealmente a
disposizione. Cerco di lasciare libera la mia fantasia. Quando ho
fatto Una pura formalità mi ricordo di aver detto
che lo scrittore protagonista non doveva aver il fisico che la gente
immagina debba avere uno scrittore; doveva sembrare un boxeur. Da
questo concetto, passai a pensare: uno tipo Depardieu. E chiè
uno “tipo Depardieu”? E’ Depardieu! In questo
film, è accaduto qualcosa di simile. Per il personaggio di
Novecento, non ho immaginato molte alternative. Mi è venuto
subito in mente Tim Roth perché questo attore conosciuto
da noi per i ruoli di gangster, mi era invece sembrato – avendo
visto altre sue performances in teatro, ma anche in altri film magari
non di successo come Four Rooms – che avesse un arco
espressivo straordinariamente ampio. E poi mi era sembrato un attore
che desse molta importanza alla sua gestualità; un attore
di estrazione chapliniana - oserei dire. Gli ho proposto il film
prima che avessi la sceneggiatura, e lui ha accettato solo sul racconto,
sull’idea della struttura cinematografica che già cominciavo
ad avere in mente. Quindi non ho cercato un attore sapendo che la
produzione cercava soldi americani. Ancora non c’erano soldi
americani nel film. Mi sono mosso liberamente. Dopo che Tim Roth
ha accettato di fare il film, quando era già in preparazione,
il film è stato poi acquistato da una distribuzione americana
per tutto il mondo. Ma il film è stato fatto, produttivamente
parlando, in base ad energie, logiche, e a un modo di lavorare,
italiano.
Per quanto riguarda il trombettista in un primo momento pensavo
di farne un italo-americano. Ma non trovavo un attore che andasse
bene. Mi ero fissato che questo attore doveva essere grassottello
– a contrasto con Tim Roth che era magrolino. Da cosa veniva
questa fissazione? Dal fatto che nel testo di Baricco, il personaggio
è uno solo, e di tanto in tanto recita anche gli altri personaggi.
E poiché i personaggi predominanti erano il pianista e il
trombettista, mi sembrava che questo personaggio sia pure vago nel
testo di Baricco, li contenesse tutti e due. Mi sono mosso in base
al principio della inseparabilità. Come farlo? Mi sono ispirato
all’inseparabilità di certe famose coppie del cinema,
ma anche della letteratura: Stanlio e Ollio. Chi li ha mai potuti
immaginarli vivere separatamente l’uno dall’altro? Gianni
e Pinotto. Il clown bianco e il clown augusto. Don Chisciotte e
Sancho Panza. Allora ho pensato che questa coppia dovesse avere
tale caratteristica fisica. A quel punto la sceneggiatura era andata
avanti. Era piaciuta al distributore americano. Si era diffusa presso
le agenzie americane - che sono meno infinite di quanto si immagina;
Los Angeles, in fondo, è un cortiletto – cominciano
ad arrivare una serie di candidature per il personaggio del trombettista.
E tutte sbagliate: tutti attori bellissimi, alcuni di grande successo,
che non c’entravano niente con l’idea che mi ero fatto
del personaggio. Lo stesso distributore americano ha provato a farmi
capire che se avessi usato un nome famoso forse il film avrebbe
avuto ancora più chances. Io dissi: guardate, se il film
ha delle chances stanno nella “giustezza” dei personaggi,
e non nel fatto che ci sia un nome più famoso di un altro.
Andavo in giro con una foto di Stanlio ed Ollio, finché un
bel giorno mi capitò un fatto che sembra uno di quelli inventati
dagli uffici stampa per destare curiosità, ma invece è
vero. Ero a Los Angeles per una serie di incontri con attori americani,
arrivavano quelle cassette che ti mandano le agenzie a quintali,
lettere che ti scrivono come se ti conoscessero, come se avessi
fatto il servizio militare con loro. Sono sempre gentilissimi, ti
mandano la frutta in camera, i fiori, poi tu non sai chi sono. Mentre
incontravo un attore, avevo sul tavolo la foto di uno degli altri
candidati. E mi sembrò poco elegante. Come se un produttore
mi chiamasse per propormi un film, e avesse sulla scrivania i nomi
degli altri registi a cui si rivolgerà nel caso in cui io
rifiutassi.. Ricordo di avere detto all’aiuto-regista di togliere
quel materiale. Arriva un nuovo attore, vado nell’altra stanza
per una telefonata, e vedo ancora questa fotografia, peraltro non
bella, mossa. Un volto strano, che non sembrava nemmeno interessante.
Per farvela breve, sono stato per due giorni ossessionato da questa
fotografia che andava in giro. Un giorno, durante una riunione,
dissi: guardate, o si trova uno così come me lo immagino
fisicamente, o fermiamo tutto e ridiscutiamo le date, eccetera eccetera.
A questo punto, una delle innumerevoli cassette fu messa dentro
un video registratore, e apparve un’immagine in cui c’era
Paul Newman seduto su un gradino, accanto a un ragazzo malconcio,
grassottello, con cui dialogava. E dissi: “Vorrei qualcuno
tipo quella comparsa”. E il mio aiuto fa: “E’
quello della fotografia che tu odi!”. Il distributore americano
cascò per terra svenuto, perché questo attore non
era nessuno. Io lo incontrai e nei primi cinque secondi capii che
lui avrebbe fatto il film. E glielo dissi. Lui mi rispose che in
America nessun regista ti dice subito così. Magari ti dice
che gli piaci, ma poi la compagnia e il produttore devono dire la
loro. La ricerca degli attori non è stata suggerita da esigenze
di pacchetti, per poter vendere meglio il film all’estero.
Anche la ragazzina è francese solo per caso, perché
non sono riuscito a trovare un’italiana, anche per ragioni
di tempo. Poi se il film è interpretato dagli attori giusti,
se la storia è rispettata e ha una sua forza espressiva,
può darsi che abbia successo. Ma se rincorro il facile approccio
con un mercato, sicuramente viene fuori qualcosa di ibrido, senza
anima.
Uno spettatore: Dove è stato girato il
film?
Tornatore: Il film è stato girato per
due terzi in Italia, a Roma. La nave è stata ricostruita
a sezioni. Noi una nave intera non potevamo permettercela perché
i soldi del Titanic non ce l’avevamo. Abbiamo costruito
una sezione della parte centrale, a scala 1:1, quindi a grandezza
naturale, larga 65 metri e alta 35, nello spazio dell’ex mattatoio
a Testaccio, a Roma. Lì abbiamo fatto tutti i porti del film:
Southampton, New York, eccetera. Poi, i due ponti, di prima e di
terza classe, li abbiamo costruiti – anche questi in scala
1:1 – sovrapponendoli su una vecchia nave russa di circa centosessanta
metri, ancorata al porto militare di Odessa, ormai fuori uso, e
che poteva ancora essere messa in mare aperto. E dentro questa nave
abbiamo girato nell’unico ambiente vero del film: la sala
macchina (che abbiamo un po’ elaborato). Gli altri ambienti
sono stati ricostruiti in studi cinematografici. La statua della
Libertà è digitale, non esiste proprio. Noi volevamo
riprenderla dal vero, ma si è rivelato molto più faticoso,
produttivamente parlando.
Uno spettatore: So che il film è costato
moltissimo. Che cosa ha provocato maggiori spese? Lei è andato
fuori budget?
Tornatore: Il film aveva un preventivo abnorme.
Poi ha subito uno sforamento dovuto a una lunga serie di incidenti.
La spesa più grossa saranno state le 26 settimane di riprese,
la troupe. 5-6 settimane erano in diaria. Poi è un film con
molte comparse, e molte scenografie. Credo che soltanto la voce
scenografie sia più alta del costo medio di un film italiano.
In assoluto, credo che questo sia stato il costo più alto
nella storia del cinema italiano. Se invece lo rapporti con il valore
della lira del passato, scopri che ce ne sono stati tanti altri
più costosi di questo. Ma il costo del nostro film (22-23
milioni di dollari) per il codice produttivo statunitense, è
un costo medio-basso. Abbiamo fatto qualche inquadratura in cui,
grazie al digitale, abbiamo aumentato il numero delle comparse.
Però, spesso ci siamo resi conto che finiva per costare di
più. Perché quando devi girare un’inquadratura
di mille persone impieghi molto tempo a cercarle, a vestirle. Ma
quando sono lì, tu giri in poco tempo. Mentre se devi realizzare
mille persone con cento comparse, certo ti costano molto meno; però
anziché girare in un’ora, impieghi una giornata intera,
perché le devi riprendere tantissime volte, perché
poi il digitale le assembli una all’altra. Alla fine scopri
che ci metti un giorno, e un giorno di riprese costa moltissimo.
Una spettatrice: Perché dodici segretarie
di produzione?
Intanto le posso dire che le segretarie di produzione non servono
a me. Alcune fanno quattro settimane, e poi vanno via. Lei crede
che io stia con dodici segretarie di produzione intorno a me, a
cincischiare tutto il giorno? Non è così!
Ho avuto un solo aiuto regista e due assistenti. A Odessa abbiamo
assunto un aiuto regista sul posto che parlava due lingue. Complessivamente,
abbiamo avuto anche meno di quello che questo film avrebbe imposto.
E poi non tutto quello che trovate sui titoli di coda lo abbiamo
avuto così come è scritto lì. Uno legge trentacinque
nomi di macchinisti e resta stupito. Ma c’erano giornate in
cui si dovevano girare scene complicatissime, e chiedevo per quel
giorno cinque macchinisti in più. E io li metto comunque
nei titoli, perché hanno dato un contributo. Lei non deve
credere che le mille e cinquecento persone che ci sono nei titoli
io le abbia avute tutti i giorni. Se no il film sarebbe costato
centocinquanta miliardi.
Una spettatrice: Volevo farle una domanda sottilmente
polemica. E’ strano che i registi italiani quando raccontano
storie non minimaliste, si rivolgono ad attori stranieri. Gli attori
italiani non hanno molte possibilità di farsi vedere all’estero,
e quindi hanno meno mercato. Secondo lei,gli attori italiani hanno
la possibilità di recitare in questi grossi film e quindi
di avere un mercato internazionale?
Tornatore: E’ difficile dire se una categoria
tra le tante che concorrono alla nascita di un film può avere
possibilità di mercato. E’ tutta una cinematografia
che, nella sua crescita complessiva, può guadagnarsi spazi
di mercato.
Il nostro cinema paga oggi lo scotto di una grandezza che ha avuto
e che lo ha associato per sempre al realismo. All’estero l’Italia
degli anni Cinquanta la si capisce. L’Italia degli anni Ottanta
e Novanta la si capisce meno, ma noi stessi la capiamo meno. E il
nostro cinema non riesce a esprimere sullo schermo che cosa è
diventato il nostro paese. Questa difficoltà probabilmente
ci ha fatto perdere un certo tipo di legame che avevamo con il cinema
internazionale.
Noi abbiamo bravissimi attori. Il grande problema è che c’è
stato un decennio, in particolare, in cui tutto il cinema italiano
è stato costretto a fare di necessità virtù.
Non c’erano mezzi, non c’era un governo cui interessasse
il cinema e allora pur di non morire si facevano cose sempre più
piccole. E pur di convincerci che in fondo non era un rimedio, ci
siamo inventati una filosofia che garantiva questo cinema delle
due camere e cucina, come eticamente più giusto e più
profondo di un cinema spettacolare. Ci siamo convinti di aver trovato
una strada. Facendo un po’ come gli struzzi. Ma una cinematografia
è tanto più forte e ha maggiori chances, quanto più
sfrutta tutto l’arco espressivo del linguaggio cinematografico:
quando abbraccia, insieme al cinema minimalista (che non rifiuto,
è un modo di raccontare importantissimo) anche un cinema
più articolato, con vari generi. Anche negli Stati Uniti,
quando si appiattiscono solo su un genere - per un’intera
stagione fanno solo fantascienza -entrano in crisi. Dobbiamo far
tesoro di questo. Una pura formalità doveva essere
estremamente minimalista. Fatto di niente: due personaggi in una
stanza, e tanta pioggia. Ma io non accetto il minimalismo come conditio
sine qua non, giustificata dal concetto ipocrita che più
si è poveri, meno mezzi si hanno, e più si è
intellettualmente onesti, corretti. Questa visione ha impoverito
il nostro cinema. Non è giusto far credere ai giovani che
basta prendere una telecamera e fare una cosetta ed esser sinceri,
e grazie alla sincerità diventare grandi registi. E’
un’indicazione sbagliata. Per fare il cinema, bisogna saper
fare anche questo ovviamente. Ma bisogna imparare tantissime cose.
Uno deve sapere come funziona una lingua. E poi decide, se vuole
raccontare un romanzo o se vuole compilare la schedina del totocalcio.
Ma è una scelta da compiere sulla base di una consapevolezza
alta, il più completa possibile.
Uno spettatore: Quali sono le sue abitudini di
lettura? Come le è capitato il libro di Baricco tra le mani?
Tornatore: Mi è capitato tra le mani in
un modo bizzarro. Io avevo chiamato Baricco per un film che poi
non ho fatto, e che non ho nemmeno finito di scrivere. Per il quale
mi era venuto in mente di chiedergli di collaborare ai dialoghi,
perché mi piaceva il suo modo di scrivere. Avevo letto soltanto
un suo libro: Castelli di rabbia. Ci siamo visti, abbiamo
parlato. Lui non mi sembrò molto entusiasta, all’idea
di collaborare ai dialoghi di una sceneggiatura scritta da un altro.
Non disse di no, ma non mi sembrò eccitatissimo. Poi la cosa
è svanita. Un bel giorno, lui mi ha mandato due testi suoi:
Novecento e un dattiloscritto di cui mi sfugge il titolo,
molto interessante. Lessi dopo qualche tempo questo Novecento
e mi piacque molto.
Io sono eclettico come regista, almeno quanto lo sono come lettore.
Credo che le lettura che hanno influenzato di più la mia
formazione, siano quelle che ho fatto in gioventù fino a
tutto il liceo. Poi sono state sempre più mirate. Talvolta
mi interessa documentarmi su determinati argomenti. Però,
i classici greci secondo me sono stati la lettura che mi ha influenzato
di più. Che dirvi? Mi piacevano le tragedie greche, tantissimo.
E in greco ero molto bravo, in storia della letteratura. E non lo
ero per niente in grammatica.
Poi, sono sempre stato molto affascinato dal racconto orale. Io
credo di dovere molto a una figura mitica della mia infanzia, che
era il mio nonno paterno, un autodidatta che sapeva la Divina
Commedia a memoria, e ce la recitava per tenerci buoni.
Uno spettatore: Come è stato il tuo rapporto
con Alessandro Baricco? Che cosa ha detto Baricco quando ha visto
il film?
Tornatore: Sono stati rapporti perfetti. Quando
gli ho espresso il mio apprezzamento per la sua storia, e il mio
desiderio di farne un film, ne abbiamo parlato un po’, gli
è piaciuta l’idea, ha ceduto i diritti. Io gli ho fatto
leggere per correttezza due stesure della sceneggiatura. Mi ha dato
dei pareri molto generali, per telefono. Ma non ha partecipato alla
sceneggiatura, era stato solo uno degli accordi di partenza. Non
ha mai voluto vedere il film prima che uscisse nelle sale. Questo
lo aveva detto quattro mesi prima che io cominciassi a girare, ed
è stato fedelissimo, “novecentiano”, coerente
fino alla fine. Quando c’è stata la conferenza stampa
per l’anteprima del film, un po’ tutti hanno chiesto
di vederlo insieme agli attori. Io gli ho mandato un messaggio affettuoso,
chiedendogli di fare un eccezione alla regola, ma lui molto gentilmente
mi ha spiegato perché avrebbe preferito di no. Io l’ho
trovato un atto di fiducia nel film. Generalmente lo scrittore è
diffidente, e ti dice che vuole vederlo prima per decidere se mettere
“ispirato a” o “liberamente ispirato a”.
forse si è accorto che il tipo di racconto che volevo fare
io, era un investimento di energie tale che ne ha avuto rispetto.
Al cinema, l’ha visto il primo giorno che il film è
uscito, mi ha chiamato al telefonino e mi ha detto: “L’ho
visto. Mi è piaciuto molto”. Poi ci siamo incontrati,
sono andato alla sua scuola, abbiamo passato un pomeriggio insieme.
E’ stato un ottimo rapporto.
Cosulich: E che ci dici di Lajos Koltaj, il direttore
della fotografia?
Tornatore: E’ stata una persona straordinaria,
ha fatto un lavoro meraviglioso. Vi racconto perché ha diretto
lui la fotografia del film. E’ stato uno di quei bizzarri
incidenti che capitano nel cinema, e che talvolta riservano delle
bellissime sorprese. Il film doveva farlo il direttore della fotografia
de L’uomo delle stelle: e cioè Dante Spinotti.
Avevamo già cominciato a parlarne e a lavorare insieme. Senonché
le riprese del film sono slittate, e questo ha creato dei problemi
a Spinotti, che era già impegnato per un film di Michael
Mann negli Stati Uniti. Così è dovuto scendere dalla
nave prima che partisse. E io ero già in piena preparazione,
e non sapevo come risolvere il problema. Alcuni direttori della
fotografia che conosco erano impegnati anche loro. E chiesi a Dante:
“Suggeriscimi qualcuno”.
Se chiami Lajos Koltaj avrai una bellissima sorpresa. Lo conosco.
Il nome non mi diceva nulla, poi quando mi ricordò che era
il direttore della fotografia di Szabò, mi sono ricordato
immediatamente del film che aveva fatto. L’ho chiamato, e
lui mi disse: “In questi giorni, non spero altro che di fare
un film in Europa, perché da cinque anni lavoro negli Stati
Uniti e mi manca l’Europa. Vengo volentieri”. E’
venuto, ha fatto il film, ed è stata una collaborazione straordinaria.
Uno spettatore: Una domanda polemica. A proposito
dell’immagine della Statua della Libertà ricostruita
con il computer, o delle masse virtuali, mi domando se questo sia
eticamente corretto. Se da una parte può contribuire a facilitare
la produzione di un’opera molto bella come la sua, dall’altra
potrebbe essere la prefazione ad uno scenario abbastanza apocalittico,
come quello di un cinema fatto da attori fantasma...penso ad esempio
al Corvo. Il sindacato degli attori che direbbe?
Tornatore: E’ interessantissimo quello
che dici. Nel caso del mio film gli effetti speciali si chiamano
così, ma io sento che è una definizione impropria
– avevano tutti lo scopo di produrre un esito realistico.
(Mentre per la gente effetti speciali fa subito pensare ai marziani).
Talvolta abbiamo risolto problemi espressivi ricorrendo alla tecnologia.
Non lo abbiamo fatto per l’intero film. Anzi: il film al novanta
per cento è stato fatto artigianalmente come si fa il cinema
in Italia. Per quella sequenza, poiché non si poteva realizzare
la Statua della Libertà vera in quel modo lì, siamo
dovuti ricorrere al computer. Questo per quanto riguarda il mio
film. Per quanto riguarda l’argomento che tu proponi, si dovrebbe
aprire una discussione molto profonda. In futuro è facile
immaginare che si potranno fare film senza nemmeno andare più
sul set. Hai ragione tu. Non è solo un fatto di costi. In
futuro il linguaggio delle immagini acquisterà le stesse
prerogative del linguaggio della scrittura. Oggi ciascuno di voi
può andare a casa a scrivere un libro. Oppure la mattina
si sveglia, ha fatto un sogno che lo intriga particolarmente, e
decide di fissarlo su una pagina, o in un file del computer. Poi
magari un giorno questo sogno gli torna in mente, questa paginetta
gli piace, ci lavora un po’ su, la sviluppa e diventa un racconto.
Magari una sera conosce un editore in una festa, glielo pubblica
e scopre un grande scrittore.
Questo oggi con il cinema non si può fare. In futuro io credo
che ci si arriverà. Ciascuno di noi, chi vorrà - si
aprirà poi un altro discorso sull’analfabetismo del
linguaggio visivo, delle azioni vere e proprie, così come
si scrive. Tu ti svegli una mattina e dici : “Ho sognato John
Wayne che andava a Piazza Navona a prendersi
un caffè”. Apri il computer, prendi Piazza Navona,
la vuoi più dall’alto, più dal basso, con il
grigio, senza il grigio, con la pioggia o senza. Con un po’
di gente, no con meno. Con più o meno turisti. E fai un racconto
visivo. Prendi appunti non letterari, ma visivi. Ritagli la testa
di John Wayne da qualunque film o da una fotografia e il computer
la anima. Gli dai la voce che vuoi. Poi se il tuo racconto è
orribile rimarrà nel tuo computer, se fai un pezzo di grande
cinema un giorno potrà esserci un distributore che te lo
fa uscire.
Cosa vuoi che ti dica sull’etica dell’autore? Oggi di
che etica vuoi parlare rispetto alla parola scritta? Quando apri
il giornale e sai che tre quarti delle parole che vengono attribuite
alla gente non sono state dette o comunque non in quel modo. E’
uno scenario inquietante, che crea molte paure all’autore
classico. Ma tutti potranno fare il loro film, se vorranno.
Una spettatrice: Che significato ha per lei il
fatto che Novecento non scenda mai dalla nave? Qual è la
valenza metaforica del personaggio?
Tornatore: Beh, non è facile definire
la valenza metaforica di un personaggio in pochi punti precisi:
questo, questo, e quello. Quando ci si riesce vuol dire che non
era metaforico. Il tema è sconfinato. Ognuno lo può
affrontare come preferisce. Le potrei fare mille esempi, tutti giusti
o sbagliati e mai esaurienti. Ciò che mi venne in mente,
riflettendo e scrivendo su questo tema, è che ciascuno di
noi ha una nave dalla quale non scende mai nella propria vita. Noi
viviamo sfruttando pochissime delle possibilità a nostra
disposizione. Conosciamo pochissime persone rispetto a quelle che
potremmo conoscere. Facciamo lo zero virgola – chissà
quanti altri zero potrei aggiungere prima dell’uno –
dei lavori che potremmo fare. Il confronto fra il destino di un
individuo e le potenzialità che la vita gli concede è
un argomento inquietante.
C’è un racconto, del quale mi sfugge il titolo, di
Mark Twain. Si svolge in Paradiso. C’è un gran subbuglio
perché sta arrivando un grande personaggio, un grande uomo
di guerra, un generale. Chiamano Napoleone e altre personalità,
per accogliere questo stratega. Arriva, ed è un falegname.
Napoleone e gli altri: “Ma è un falegname?!”.
“Sì – spiegano – ma se avesse intrapreso
la carriera militare sarebbe diventato il più grande stratega
della storia dell’umanità, e noi lo festeggiamo lo
stesso”. Nel finale del film, Novecento esprime lo smarrimento
di ciascuno di noi, rispetto ai nostri mille destini possibili.
Che non abbiamo intrapreso, forse perché non siamo poi tanto
disposti a cambiare. Se ci pensate bene, non è che si cambia
tanto. Certe volte ci illudiamo di cambiare nel corso della nostra
esistenza, ma forse perché cambiano le cose che sono intorno
a noi. Ma stringi stringi noi abbiamo sempre lo stesso carattere.
Sono questioni che quando finisce il film, ti restano dentro. A
me piace quando un film ti lascia un segno, ti costringe a pensarci
ancora. Quando esci dal cinema e ti senti come uno che si è
soffiato il naso con un fazzoletto e lo butta via, mi piace meno.
Uno spettatore: Io vorrei fare una domanda sul
linguaggio. Io non vedo tanti registi che tentino di innovare il
linguaggio cinematografico...
Tornatore: Io ho la sensazione quasi opposta,
invece: che ci sia un’inquietudine continua a cercare. Nel
cinema, ormai, la grammatica che prima era intoccabile, non la segue
più nessuno. Si può dire che ogni autore segua una
grammatica propria, che si inventa giorno dopo giorno. Talvolta
non te ne accorgi vedendo i film, devi essere un addetto ai lavori.
I nuovi mezzi, la tecnologia danno una grande libertà di
invenzione. Io credo invece che il punto focale che non cambia mai
è l’importanza di ciò che si racconta. Questo
è più importante della ricerca del linguaggio. Ogni
storia si può raccontare in mille modi. Un esercizio importantissimo,
dopo che ho stabilito il soggetto e la sceneggiatura, è chiedermi:
in quale altro modo si potrebbe raccontare il film? E talvolta vengono
fuori delle suggestioni, che possono anche metterti in crisi. E
se questo accade, vuol dire che la scelta che stai seguendo non
ti convince fino in fondo, o non è quella giusta. Ho imparato
questo esercizio grazie a dei meravigliosi incidenti che il cinema
mi ha onorato di procurarmi. Quando ho fatto Il camorrista,
il preventivo era alto per un’opera prima: tre miliardi e
mezzo, nell’85. Dieci giorni prima dell’inizio delle
riprese, il produttore, Goffredo Lombardo, mi chiamò e mi
disse: “Il film non si può fare. E’ troppo costoso”.
(Lo dico sempre ai giovani: quando stanno per cominciare le riprese
del tuo film, succede sempre qualcosa per cui il film non si può
fare. Ma sempre.) Io ero disperato. Lui mi provocò: “Tu
hai molta fantasia. Fatti venire un’idea per far diventare
questo film meno costoso”. Mi sembrò una provocazione
molto intelligente, che mi ha insegnato moltissimo. Io non feci
altro che pensare a questo. Era un venerdì. Lunedì
tornai dal produttore e dissi: “Ho un’idea straordinaria,
grazie alla quale il film costerà un terzo”. “Straordinario!
Che idea è?”. “Il film comincia con questo giovane
che ha compiuto un omicidio che noi non vediamo. Lo arrestano e
lo condannano all’ergastolo. Passa la vita dentro una cella.
Gli altri lo vengono a trovare. Gli dicono come vanno le cose. Lui
ordina omicidi, altri eseguono. Noi non vediamo mai niente. Tutto
si svolge in un solo ambiente”. Lombardo disse: “Che
razza di proposta è? Secondo te, chi andrebbe a vedere un
film così?” “Questo non lo so. E’ la mia
idea che risponde alla tua provocazione”. “Va be’,
andiamo avanti col film”. E si fece il film da tre miliardi
e mezzo. Voglio dire: tutte le storie si possono raccontare in altri
modi.
Anche Novecento si poteva raccontare in un luogo chiuso. Non lo
so. Forse. Sarebbe stato un bellissimo film. Io ho preferito farlo
così.
Uno spettatore: Mi sono accorto, ripercorrendo
con la memoria i suoi film, che ci sono temi e immagini ricorrenti.
Addirittura nella Leggenda ho ritrovato il tema del crollo,
della demolizione, che c’era in Nuovo cinema Paradiso
(dove veniva demolito il cinema). La stessa ricerca ossessiva di
volti, che c’era nell’Uomo delle stelle. Fino
a che punto lei è consapevole di questo processo?
Tornatore: Domanda bellissima. Devo dire che
una delle cose più eccitanti del mio mestiere è quando,
in un caso come questo, qualcuno ti dice: in questo film lei è
fatto qualcosa che è simile o ha lo stesso significato di
quella che aveva fatto dieci anni fa in quell’altro film.
Sono momenti straordinari, perché io non me ne accorgo. Ci
sono, è vero, elementi ricorrenti. Ma è sempre stato
il pubblico a farmelo capire.
Tempo fa una studentessa ha scritto una tesi di laurea su due dei
mie film Nuovo cinema Paradiso e Una pura formalità,
e dimostrava che erano uguali. E tirava fuori delle argomentazioni,
alcune veramente incontrovertibili.
Che nella Leggenda ci siano degli elementi che ricordano
Nuovo cinema Paradiso, me lo hanno già detto altri. Qualcuno
mi ha detto che, in fondo, basterebbe sostituire la nave con il
cinema, e fare di Novecento un Totò che non va via e che
rimane lì. E’ vero, in fondo. Ma io non ci avevo pensato.
Quando all’inizio Cosulich diceva di sentirsi spiazzato dai
miei film, vi confesso che questo a me piace molto. E al contempo,
mi piace cambiare, spiazzare, me stesso se possibile e anche gli
altri, e tuttavia mantenere alcuni elementi di continuità.
Ogni mio film è un cambio netto, rispetto al precedente.
Io credo che questo dipenda da due elementi. Quando finisco un film,
mi documento talmente tanto, lo vivo fino in fondo, da conservare
infine l’impressione che su quel tema più di quello
che ho detto non posso dire. L’altra spiegazione è
più forte: io sono affascinato, o se volete ossessionato,
dal complesso dell’opera prima. Quando faccio un film, devo
riuscire a ricostruire quegli elementi di non conoscenza, o di paura,
che, quando ho girato la mia opera prima, mi hanno dato una grande
carica.
Uno spettatore: Lei che ne pensa di come vengono
proiettati i film nelle sale cinematografiche italiane?
Tornatore: Questo è un problema molto
delicato. A me dispiace che ogni volta che affronto questo tema,
gli esercenti si risentano come se io volessi fare un discorso contro
di loro.
Mi piacerebbe che i miei film, come quelli dei miei colleghi, venissero
offerti nelle sale cinematografiche così come gli autori
li hanno licenziati in sala missaggio. Purtroppo, questo accade
molto raramente. Benché ci sia un gran fiorire di sale –
dato molto positivo, di cui va dato atto agli esercenti, perché
sono loro che investono per questo - va riconosciuto che a questa
crescita quantitativa non corrisponde adeguatamente la crescita
della qualità. Salvo rare eccezioni, nelle nostre sale i
film si vedono malissimo. Quando esce un mio film – gli esercenti
lo sanno, mi sopportano – faccio miriadi di sopralluoghi nei
cinema. E spesso devo far cambiare un obiettivo qua, una lampada
là, far rivedere l’impianto sonoro qui, aggiustare
il mascherino lì: ma continuamente! E’ una situazione
veramente incresciosa.
I nostri esercenti dovrebbero imparare che una sala cinematografica
va curata in continuazione: ogni anno bisognerebbe fare un controllo
generale, e se c’è qualcosa che non va, si dovrebbe
cambiare. Invece molti - non tutti, per carità – continuano
a ragionare come negli anni Cinquanta, quando si costruiva una sala
e si pensava che per sessant’anni dovesse restare così,
finché gli schermi non diventavano color cartone.
L’automazione delle cabine di proiezione stranamente ha determinato
un’involuzione della qualità. Una volta c’era
un rapporto diretto fra lo spettatore e chi proiettava. Se vedevi
il fuori quadro, se vedevi sfocato, fischiavi e qualcuno dall’alto
li ascoltava. Oggi puoi fischiare, ma tanto non ti ascolta nessuno,
perché in cabina non c’è nessuno. E infatti
il pubblico si è abituato a non protestare. Se esci e lo
vai a dire, ti rispondono: “E’ la copia”.
Uno spettatore: Com’è il suo rapporto
con i critici cinematografici?
Tornatore: Non c’è da dire molto
sul mio rapporto con i critici. E’ stato un rapporto dialettico,
di confronto, vivo tutto sommato. Ci sono stati momenti drammatici,
di incomprensione. All’inizio non mi sentivo preso molto sul
serio. Però forse era sbagliato da parte mia pretendere che
ai primi due film si occupassero di me come se fossi stato uno che
ne aveva fatti tanti. Io ho sempre accettato il giudizio dei critici.
Non mi aspettavo che le critiche della Leggenda fossero cos’
straordinarie. Perché sono state straordinarie. Sono contento
perché l’ottanta per cento dei maggiori critici italiani
ne ha scritto bene. E non tanto perché ne hanno scritto bene,
ma perché hanno esposto argomentazioni che dimostravano un
lavoro analitico serio. Avevano trovato suggestioni importanti.
Avevano intercettato la serietà con cui ho fatto il film.
Non è che il critico per un regista è bravo solo perché
dice che il suo film è buono. Un buon critico può
fare un ottimo servizio a un regista, parlando criticamente di un
suo film. Quello che non accetto è il ricorso all’insulto.
Quando dicono questo film è brutto perché Tornatore
è antipatico – come è successo – io non
li ritengo critici. Ed è bene che questi signori parlino
male dei miei film. Una mia ossessione è che un giorno possa
aprire il giornale e leggere che a Fofi sia piaciuto un mio film.
Spero che questo non accada mai, perché vorrebbe dire che
a quel punto ho cominciato a decadere.
(L'incontro con Giuseppe Tornatore, promosso dalla Biblioteca
del Cinema "Umberto Barbaro" e dalla rivista Cinemasessanta,
si è svolto presso la libreria Bibli di Roma, nel novembre
1998)
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