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Incontro con Giuseppe Tornatore

Da: CINEMASESSANTA – n° 3 - 1998

Callisto Cosulich – Di solito quando si fa un’introduzione critica su un autore si comincia dall’inizio. Ma in questo caso è meglio cominciare dalla fine, da un film monstrum che non ha credo precedenti nella fisiologia e nella filosofia del cinema italiano, come La leggenda del pianista sull’Oceano. E’ tratto da un breve monologo di Alessandro Baricco, che fu presentato, se non erro, nel ’94-’95, che a leggerlo sembra fatto quasi su misura per uno di quei cortometraggi che oggi circolano di nuovo. Invece, nossignore, Tornatore ne fa un lungometraggio, e di una lunghezza non abituale, di 2 ore e 40 circa, pur rimanendo fedelissimo al testo. Si tratta di un film-scommessa. Anche per il costo di produzione, di circa quaranta miliardi, eccezionale oggi in Italia; è una cifra americana. Oltretutto, sono miliardi che si vedono sullo schermo. Quando fai un film ad alto costo, devi sottostare a certi obblighi: devi fare un film popolare, devi passare attraverso la trafila di coloro che hanno investito i soldi e che vogliono intervenire sul prodotto finale. Il film di Tornatore, invece, non si sottomette a convenzioni, non vuole essere facile; molti possono considerarlo un film lento e lungo, addirittura ripetitivo; un film che si prende tutte le comodità. Tornatore, ha fatto, credo esattamente il film che voleva. Inoltre lo ha sceneggiato da solo. Non ci sono coautori. Semmai forse coautore è il musicista, Ennio Morricone, il quale, anche questo è poco in uso, credo che abbia lavorato con lui dagli inizi del film. Quindi, si può dire, la musica e le riprese sono andate avanti di pari passo. Ma chi è Tornatore? E’ un regista molto discusso, è un regista che spiazza. Io stesso sarei ipocrita se dicessi che mi sono piaciuti tutti i suoi film. Ho partecipato anzi a un dibattito televisivo su Nuovo cinema paradiso, in cui avevo il ruolo del detrattore. Nuovo cinema paradiso è uno di quei rarissimi film italiani che negli ultimi anni è riuscito ad avere un’affermazione all’estero. E non parlo solo dell’Oscar. Il film ha avuto un successo enorme, a partire dell’America, che poi è stato ripetuto solamente dal Postino. Se consideriamo la filmografia di Tornatore vediamo che non è facile trovare un comun denominatore ai suoi film, temi ricorrenti. Se non aspetti generici, che non definiscono un autore. Per esempio, la capacità di pensare in grande. I suoi film, a cominciare dal primo, Il camorrista, appaiono più “grossi” della normale produzione italiana. Come nasce al lungometraggio, Tornatore diventa subito parente dei registi che hanno fatto film di produzione molto impegnativa, come Leone, come il secondo Bertolucci. Ciò detto, fra i suoi film notiamo una notevole diversità di contenuto e di stile. C’è un Tornatore che batte sentieri abbastanza tradizionali – che sono quelli che gli hanno dato grande successo – nei film che hanno come tema il cinema, Nuovo cinema paradiso da un lato, e L’uomo delle stelle dall’altro. Poi ci sono film più spericolati Il camorrista si presenta come un film delirante, estraneo del tutto alla traccia spettacolar-politica italiana, con prodotti notevoli di denuncia (come certo Damiani, Petri). Ricordava forse alcuni western di Leone, senza essere mai però una decalcomania. Una pura formalità è un kammerspiel che si svolge in due o tre ambienti piccoli e brutti, girato in cinemascope. Un film astratto, criptico, interpretato da attori stranieri. Anche stavolta si tratta un cinema nato per non restare a casa propria, per circolare in tutto il mondo. Senza fare, per questo, un film di genere americano. Non si può dire mai che Tornatore imiti qualcuno. L’unico film italiano dell’inizio della stagione ’98-99 che non sia una commedia con Nuti o con Verdone, che abbia avuto un grande successo di pubblico è questo film di Tornatore La leggenda del pianista sull’Oceano. Vorrei chiedere a Tornatore qualcosa sulla lavorazione di questo film. Un testo smilzo come quello di Baricco, lo ha sviluppato in una forma quasi sproporzionata rispetto alla traccia iniziale, pur rimanendogli fedele. E poi vorrei che parlasse della sua collaborazione con il musicista Morricone che in questo caso, insisto, è coautore del film.

Tornatore: Molti mi hanno chiesto come mai da un testo così smilzo sia potuto venire un film di questa portata. Quando leggo un libro o una sceneggiatura, forse per mio difetto, non cerco mai di stabilire un rapporto di quantità. Una pagina può evocare nella mia testa un film o un’intera sceneggiatura, o una scenetta e basta. Nel caso del testo di Baricco, quello che mi piacque, a parte la storia in sé, fu l’occasione che essa mi offriva di operare forse in un modo nuovo rispetto a un libro. Poco fa Cosulich diceva giustamente: io ho riletto il libro ma nel film c’è tutto. E’ fedelissimo. Ed è vero. Però, il film è un’altra cosa rispetto al libro. Ha una struttura narrativa che non ha niente a che vedere con il libro. Ciò che mi piaceva del testo, era proprio il fatto di poter raccontare questa storia facendo emergere in primo piano un tema che nel testo non c’era. Ed è, appunto, il tema del raccontare. Il film è centrato sul rapporto tra uno che racconta o che si trova costretto a raccontare; e chi fruisce del suo racconto. E sull’evoluzione dell’atteggiamento di quest’ultimo. Per cui, benché la storia mi piacesse moltissimo e mi avesse folgorato, la possibilità di procedere soprattutto per infedeltà al testo, mi coinvolse profondamente. La cifra epica che nel testo è sottintesa o forse c’è a dispetto dell’autore stesso (io non credo che Baricco abbia mai pensato alla cifra epica del suo racconto; anzi, tutt’altro: il suo è un racconto che tende alla leggerezza, alla semplicità), e che io invece ritrovavo nella storia di questo personaggio, di cui veniamo informati dalla nascita alla morte, ha prodotto questo tipo di sceneggiatura, questo tipo di film. A quel punto, una volta messa in piedi la sceneggiatura, ho proceduto come procedo abitualmente. Io cerco sempre di fare ciò che il film mi suggerisce. Sono convinto che qualunque problema il film ti ponga in qualunque momento - sia nella fase della lavorazione, sia in quella delle riprese o in quella successiva - la risposta a ogni problema sia sempre dentro il film. Se un bel giorno la produzione mi suggerisce di trasformare l’ambiente di una scena in un altro, perché quell’ambiente lì non è disponibile, allora il problema di quella sostituzione ha la risposta risolutiva nel film. In questo caso a me non andava di fare un film che assecondasse l’anima claustrofila di Novecento che vive tutta la vita in un luogo chiuso. Sentivo che non era questa la chiave. Volevo seguire Novecento, senza aver mai paura di potermi guardare intorno liberamente. Questa era la direttiva generale. Poi il film si è rivelato molto ma molto più complicato di quanto io stesso pensassi all’inizio. Tutti coloro che hanno partecipato alla lavorazione, hanno avuto immediatamente la sensazione che si trattasse di dover dare molto. Ma per quanto questa consapevolezza fosse forte, poi tutti via via finivano per accorgersi che non bastava, che ci voleva molto di più. E’ stato un film che ha richiesto tantissimo. Per cui, oggi, devo dirvi, questo confronto fra il testo smilzo e il film lungo, mi fa un po’ tenerezza.Nel senso che è vera quella cosa che si dice sempre quando si parla di cinema e letteratura: il linguaggio cinematografico è una cosa, la letteratura un’altra. Però spesso, secondo me, si fa l’errore di dire questo solo come frase fatta e poi di procedere per vecchie categorie di analisi. Non mi sto riferendo a quanto ha detto Cosulich. Ma al vecchio dibattito sul rapporto tra cinema e letteratura. Io sono contento di avere fatto un film che è fedele a un testo che mi aveva folgorato, ma che poi è fedele al mio modo di vedere le cose, alla mia fantasia, alla mia libertà di mettere la macchina da presa dove la fantasia me lo suggerisce.

Cosulich: Si dice molto spesso che il cinema somiglia più alla musica che alla letteratura. Il tuo film è proprio un caso in cui la letteratura si trasforma in musica. Già nella cadenza, nel montaggio, nella misura dell’inquadratura ho riscontrato un ritmo, parametri che sono musicali anziché letterari.

Tornatore: Sono d’accordo. Per quanto riguarda la collaborazione con Morricone per questo film, è verissimo che si sia trattato di un fatto molto particolare nel nostro cinema. Ma credo non solo nel nostro, perché non mi pare di conoscere film per i quali il musicista abbia lavorato per un anno e mezzo insieme al regista, dall’invenzione del soggetto, alla conclusione del film. Effettivamente quando ho cominciato ad avere un’idea chiara del soggetto, la prima cosa che ho fatto è stato di parlarne con Morricone. Faccio quasi sempre comporre la colonna musicale prima dell’inizio delle riprese, da Nuovo cinema paradiso in poi. E spesso, nel 90 per cento dei casi, ho fatto incidere i temi prima delle riprese. E talvolta li ho usati durante le riprese. E anche quando non li usavo durante le riprese, avevo bisogno di sapere che la musica del film era quella. Perché non mi ha mai affascinato il concetto per il quale la musica in un film sia qualcosa da sovrapporre all’ultimo momento, un elemento estraneo che arriva quando tutto già esiste. Forse per quello che diceva Cosulich, perché il linguaggio della musica e quello del cinema sono molto più vicini di quanto non lo siano quello del cinema e della letteratura. Hanno una cosa in comune il cinema e la musica - e cioè il tempo. Come abbiamo proceduto con Morricone? Abbiamo discusso a lungo su degli elementi che la storia ci sottoponeva che erano davvero difficili da risolvere. Per esempio una frase di Baricco era: “suonava una musica mai sentita prima”. Oppure: “Si diceva di lui che suonasse dieci jazz messi insieme”. “Si diceva di lui che suonava come se avesse otto mani”, ecc. Come far diventare cinema tutto ciò? Che tipo di articolazione doveva avere la colonna musicale del film? C’era una linea che era quella del commento classico. Ma poi c’era la musica, che noi per distinguere le due linee abbiamo definito realistica, che era la musica suonata da Novecento, dall’orchestra, dal trombettista. Abbiamo cominciato a strutturare il piano musicale del film. Contemporaneamente io andavo avanti col soggetto e la sceneggiatura. Di brani che componevano la linea realistica del film ce n’erano 33. Ma Morricone ne ha dovuti comporre, credo, una sessantina, che poi abbiamo selezionato. Quindi, un lavoro veramente faticoso. Poi, durante le riprese, talvolta, abbiamo dovuto apportare alcune modifiche. Perché non c’era soltanto l’uso classico di un playback: un brano musicale, al pianoforte, che poi un certo attore doveva eseguire in playback. Talvolta l’attore oltre a dover eseguire questo brano musicale, parlava, recitava nello stesso momento. Quindi era come se ci fossero due playback l’uno dentro all’altro. Perché la linea del testo, del dialogo, aveva un rapporto con la musica. Per esempio, la scena dell’incontro con il contadino, interpretato da Gabriele Lavia, è stata stranamente uno dei nodi musicali del film più difficili insieme all’ultimo brano del duello musicale, che con Morricone chiamavamo “moto perpetuo” per intenderci, che è stato realizzato con quattro pianoforti. E’ stato un confronto continuo. La sceneggiatura era continuamente consultata, come se avesse una vocazione a diventare partitura; e viceversa. Un grande problema è stato coniugare la professionalità di un attore con la sua non conoscenza di uno strumento musicale. In questo caso, la soluzione è stata che ho dovuto stabilire in partenza come sarebbero state montate le sequenze più delicate. Perché non si poteva chiedere a un attore che non aveva mai suonato il pianoforte, di imparare tutto a un tratto trenta brani musicali, e tutti per intero. Certo, ha studiato sei mesi. Questo a un attore si può chiedere. E un attore talvolta può anche accettare di farlo. Tim Roth lo ha fatto. Però, è ovvio che per un brano complicato di tre minuti, lui mi chiedesse sei mesi prima: ma in questo brano, quando si vedranno le mie mani? Se io non avessi stabilito sei mesi prima quella scena, non avrei potuto rispondere. Talvolta Morricone è stato chiamato nel bel mezzo del set perché c’era da risolvere un problema, un brano musicale, che era stato studiato in funzione del dialogo, ma poi, al momento delle riprese, il dialogo mi suggeriva un tempo, un ritmo diverso e quel brano non funzionava. Il musicista ha lavorato con noi, ha modificato la partitura mentre giravamo.

Cosulich: Tu per questo film hai chiamato un direttore delle luci ungherese, Lajos Koltaj, e i due attori protagonisti sono Tim Roth - inglese e Pruitt Taylor Vince, che è un attore americano molto bravo ma che certo non apre i mercati. Come sei arrivato a questa scelta di un cast internazionale, che non è determinata dal testo di Baricco, dove non c’era nessun accenno su quale sia l’aspetto del pianista e delle persone con cui ha un rapporto?

Tornatore: In genere quando comincio a pensare a un film che ho deciso di fare, e mi chiedo quali possano essere gli attori, le attrici, non mi pongo dei limiti, non stabilisco in partenza di scegliere solo attori africani o italiani. Per me, la comunità degli attori del mondo è idealmente a disposizione. Cerco di lasciare libera la mia fantasia. Quando ho fatto Una pura formalità mi ricordo di aver detto che lo scrittore protagonista non doveva aver il fisico che la gente immagina debba avere uno scrittore; doveva sembrare un boxeur. Da questo concetto, passai a pensare: uno tipo Depardieu. E chiè uno “tipo Depardieu”? E’ Depardieu! In questo film, è accaduto qualcosa di simile. Per il personaggio di Novecento, non ho immaginato molte alternative. Mi è venuto subito in mente Tim Roth perché questo attore conosciuto da noi per i ruoli di gangster, mi era invece sembrato – avendo visto altre sue performances in teatro, ma anche in altri film magari non di successo come Four Rooms – che avesse un arco espressivo straordinariamente ampio. E poi mi era sembrato un attore che desse molta importanza alla sua gestualità; un attore di estrazione chapliniana - oserei dire. Gli ho proposto il film prima che avessi la sceneggiatura, e lui ha accettato solo sul racconto, sull’idea della struttura cinematografica che già cominciavo ad avere in mente. Quindi non ho cercato un attore sapendo che la produzione cercava soldi americani. Ancora non c’erano soldi americani nel film. Mi sono mosso liberamente. Dopo che Tim Roth ha accettato di fare il film, quando era già in preparazione, il film è stato poi acquistato da una distribuzione americana per tutto il mondo. Ma il film è stato fatto, produttivamente parlando, in base ad energie, logiche, e a un modo di lavorare, italiano.
Per quanto riguarda il trombettista in un primo momento pensavo di farne un italo-americano. Ma non trovavo un attore che andasse bene. Mi ero fissato che questo attore doveva essere grassottello – a contrasto con Tim Roth che era magrolino. Da cosa veniva questa fissazione? Dal fatto che nel testo di Baricco, il personaggio è uno solo, e di tanto in tanto recita anche gli altri personaggi. E poiché i personaggi predominanti erano il pianista e il trombettista, mi sembrava che questo personaggio sia pure vago nel testo di Baricco, li contenesse tutti e due. Mi sono mosso in base al principio della inseparabilità. Come farlo? Mi sono ispirato all’inseparabilità di certe famose coppie del cinema, ma anche della letteratura: Stanlio e Ollio. Chi li ha mai potuti immaginarli vivere separatamente l’uno dall’altro? Gianni e Pinotto. Il clown bianco e il clown augusto. Don Chisciotte e Sancho Panza. Allora ho pensato che questa coppia dovesse avere tale caratteristica fisica. A quel punto la sceneggiatura era andata avanti. Era piaciuta al distributore americano. Si era diffusa presso le agenzie americane - che sono meno infinite di quanto si immagina; Los Angeles, in fondo, è un cortiletto – cominciano ad arrivare una serie di candidature per il personaggio del trombettista. E tutte sbagliate: tutti attori bellissimi, alcuni di grande successo, che non c’entravano niente con l’idea che mi ero fatto del personaggio. Lo stesso distributore americano ha provato a farmi capire che se avessi usato un nome famoso forse il film avrebbe avuto ancora più chances. Io dissi: guardate, se il film ha delle chances stanno nella “giustezza” dei personaggi, e non nel fatto che ci sia un nome più famoso di un altro.
Andavo in giro con una foto di Stanlio ed Ollio, finché un bel giorno mi capitò un fatto che sembra uno di quelli inventati dagli uffici stampa per destare curiosità, ma invece è vero. Ero a Los Angeles per una serie di incontri con attori americani, arrivavano quelle cassette che ti mandano le agenzie a quintali, lettere che ti scrivono come se ti conoscessero, come se avessi fatto il servizio militare con loro. Sono sempre gentilissimi, ti mandano la frutta in camera, i fiori, poi tu non sai chi sono. Mentre incontravo un attore, avevo sul tavolo la foto di uno degli altri candidati. E mi sembrò poco elegante. Come se un produttore mi chiamasse per propormi un film, e avesse sulla scrivania i nomi degli altri registi a cui si rivolgerà nel caso in cui io rifiutassi.. Ricordo di avere detto all’aiuto-regista di togliere quel materiale. Arriva un nuovo attore, vado nell’altra stanza per una telefonata, e vedo ancora questa fotografia, peraltro non bella, mossa. Un volto strano, che non sembrava nemmeno interessante. Per farvela breve, sono stato per due giorni ossessionato da questa fotografia che andava in giro. Un giorno, durante una riunione, dissi: guardate, o si trova uno così come me lo immagino fisicamente, o fermiamo tutto e ridiscutiamo le date, eccetera eccetera. A questo punto, una delle innumerevoli cassette fu messa dentro un video registratore, e apparve un’immagine in cui c’era Paul Newman seduto su un gradino, accanto a un ragazzo malconcio, grassottello, con cui dialogava. E dissi: “Vorrei qualcuno tipo quella comparsa”. E il mio aiuto fa: “E’ quello della fotografia che tu odi!”. Il distributore americano cascò per terra svenuto, perché questo attore non era nessuno. Io lo incontrai e nei primi cinque secondi capii che lui avrebbe fatto il film. E glielo dissi. Lui mi rispose che in America nessun regista ti dice subito così. Magari ti dice che gli piaci, ma poi la compagnia e il produttore devono dire la loro. La ricerca degli attori non è stata suggerita da esigenze di pacchetti, per poter vendere meglio il film all’estero. Anche la ragazzina è francese solo per caso, perché non sono riuscito a trovare un’italiana, anche per ragioni di tempo. Poi se il film è interpretato dagli attori giusti, se la storia è rispettata e ha una sua forza espressiva, può darsi che abbia successo. Ma se rincorro il facile approccio con un mercato, sicuramente viene fuori qualcosa di ibrido, senza anima.

Uno spettatore: Dove è stato girato il film?

Tornatore: Il film è stato girato per due terzi in Italia, a Roma. La nave è stata ricostruita a sezioni. Noi una nave intera non potevamo permettercela perché i soldi del Titanic non ce l’avevamo. Abbiamo costruito una sezione della parte centrale, a scala 1:1, quindi a grandezza naturale, larga 65 metri e alta 35, nello spazio dell’ex mattatoio a Testaccio, a Roma. Lì abbiamo fatto tutti i porti del film: Southampton, New York, eccetera. Poi, i due ponti, di prima e di terza classe, li abbiamo costruiti – anche questi in scala 1:1 – sovrapponendoli su una vecchia nave russa di circa centosessanta metri, ancorata al porto militare di Odessa, ormai fuori uso, e che poteva ancora essere messa in mare aperto. E dentro questa nave abbiamo girato nell’unico ambiente vero del film: la sala macchina (che abbiamo un po’ elaborato). Gli altri ambienti sono stati ricostruiti in studi cinematografici. La statua della Libertà è digitale, non esiste proprio. Noi volevamo riprenderla dal vero, ma si è rivelato molto più faticoso, produttivamente parlando.

Uno spettatore: So che il film è costato moltissimo. Che cosa ha provocato maggiori spese? Lei è andato fuori budget?

Tornatore: Il film aveva un preventivo abnorme. Poi ha subito uno sforamento dovuto a una lunga serie di incidenti. La spesa più grossa saranno state le 26 settimane di riprese, la troupe. 5-6 settimane erano in diaria. Poi è un film con molte comparse, e molte scenografie. Credo che soltanto la voce scenografie sia più alta del costo medio di un film italiano. In assoluto, credo che questo sia stato il costo più alto nella storia del cinema italiano. Se invece lo rapporti con il valore della lira del passato, scopri che ce ne sono stati tanti altri più costosi di questo. Ma il costo del nostro film (22-23 milioni di dollari) per il codice produttivo statunitense, è un costo medio-basso. Abbiamo fatto qualche inquadratura in cui, grazie al digitale, abbiamo aumentato il numero delle comparse. Però, spesso ci siamo resi conto che finiva per costare di più. Perché quando devi girare un’inquadratura di mille persone impieghi molto tempo a cercarle, a vestirle. Ma quando sono lì, tu giri in poco tempo. Mentre se devi realizzare mille persone con cento comparse, certo ti costano molto meno; però anziché girare in un’ora, impieghi una giornata intera, perché le devi riprendere tantissime volte, perché poi il digitale le assembli una all’altra. Alla fine scopri che ci metti un giorno, e un giorno di riprese costa moltissimo.

Una spettatrice: Perché dodici segretarie di produzione?
Intanto le posso dire che le segretarie di produzione non servono a me. Alcune fanno quattro settimane, e poi vanno via. Lei crede che io stia con dodici segretarie di produzione intorno a me, a cincischiare tutto il giorno? Non è così!
Ho avuto un solo aiuto regista e due assistenti. A Odessa abbiamo assunto un aiuto regista sul posto che parlava due lingue. Complessivamente, abbiamo avuto anche meno di quello che questo film avrebbe imposto. E poi non tutto quello che trovate sui titoli di coda lo abbiamo avuto così come è scritto lì. Uno legge trentacinque nomi di macchinisti e resta stupito. Ma c’erano giornate in cui si dovevano girare scene complicatissime, e chiedevo per quel giorno cinque macchinisti in più. E io li metto comunque nei titoli, perché hanno dato un contributo. Lei non deve credere che le mille e cinquecento persone che ci sono nei titoli io le abbia avute tutti i giorni. Se no il film sarebbe costato centocinquanta miliardi.

Una spettatrice: Volevo farle una domanda sottilmente polemica. E’ strano che i registi italiani quando raccontano storie non minimaliste, si rivolgono ad attori stranieri. Gli attori italiani non hanno molte possibilità di farsi vedere all’estero, e quindi hanno meno mercato. Secondo lei,gli attori italiani hanno la possibilità di recitare in questi grossi film e quindi di avere un mercato internazionale?

Tornatore: E’ difficile dire se una categoria tra le tante che concorrono alla nascita di un film può avere possibilità di mercato. E’ tutta una cinematografia che, nella sua crescita complessiva, può guadagnarsi spazi di mercato.
Il nostro cinema paga oggi lo scotto di una grandezza che ha avuto e che lo ha associato per sempre al realismo. All’estero l’Italia degli anni Cinquanta la si capisce. L’Italia degli anni Ottanta e Novanta la si capisce meno, ma noi stessi la capiamo meno. E il nostro cinema non riesce a esprimere sullo schermo che cosa è diventato il nostro paese. Questa difficoltà probabilmente ci ha fatto perdere un certo tipo di legame che avevamo con il cinema internazionale.
Noi abbiamo bravissimi attori. Il grande problema è che c’è stato un decennio, in particolare, in cui tutto il cinema italiano è stato costretto a fare di necessità virtù. Non c’erano mezzi, non c’era un governo cui interessasse il cinema e allora pur di non morire si facevano cose sempre più piccole. E pur di convincerci che in fondo non era un rimedio, ci siamo inventati una filosofia che garantiva questo cinema delle due camere e cucina, come eticamente più giusto e più profondo di un cinema spettacolare. Ci siamo convinti di aver trovato una strada. Facendo un po’ come gli struzzi. Ma una cinematografia è tanto più forte e ha maggiori chances, quanto più sfrutta tutto l’arco espressivo del linguaggio cinematografico: quando abbraccia, insieme al cinema minimalista (che non rifiuto, è un modo di raccontare importantissimo) anche un cinema più articolato, con vari generi. Anche negli Stati Uniti, quando si appiattiscono solo su un genere - per un’intera stagione fanno solo fantascienza -entrano in crisi. Dobbiamo far tesoro di questo. Una pura formalità doveva essere estremamente minimalista. Fatto di niente: due personaggi in una stanza, e tanta pioggia. Ma io non accetto il minimalismo come conditio sine qua non, giustificata dal concetto ipocrita che più si è poveri, meno mezzi si hanno, e più si è intellettualmente onesti, corretti. Questa visione ha impoverito il nostro cinema. Non è giusto far credere ai giovani che basta prendere una telecamera e fare una cosetta ed esser sinceri, e grazie alla sincerità diventare grandi registi. E’ un’indicazione sbagliata. Per fare il cinema, bisogna saper fare anche questo ovviamente. Ma bisogna imparare tantissime cose. Uno deve sapere come funziona una lingua. E poi decide, se vuole raccontare un romanzo o se vuole compilare la schedina del totocalcio. Ma è una scelta da compiere sulla base di una consapevolezza alta, il più completa possibile.

Uno spettatore: Quali sono le sue abitudini di lettura? Come le è capitato il libro di Baricco tra le mani?

Tornatore: Mi è capitato tra le mani in un modo bizzarro. Io avevo chiamato Baricco per un film che poi non ho fatto, e che non ho nemmeno finito di scrivere. Per il quale mi era venuto in mente di chiedergli di collaborare ai dialoghi, perché mi piaceva il suo modo di scrivere. Avevo letto soltanto un suo libro: Castelli di rabbia. Ci siamo visti, abbiamo parlato. Lui non mi sembrò molto entusiasta, all’idea di collaborare ai dialoghi di una sceneggiatura scritta da un altro. Non disse di no, ma non mi sembrò eccitatissimo. Poi la cosa è svanita. Un bel giorno, lui mi ha mandato due testi suoi: Novecento e un dattiloscritto di cui mi sfugge il titolo, molto interessante. Lessi dopo qualche tempo questo Novecento e mi piacque molto.
Io sono eclettico come regista, almeno quanto lo sono come lettore. Credo che le lettura che hanno influenzato di più la mia formazione, siano quelle che ho fatto in gioventù fino a tutto il liceo. Poi sono state sempre più mirate. Talvolta mi interessa documentarmi su determinati argomenti. Però, i classici greci secondo me sono stati la lettura che mi ha influenzato di più. Che dirvi? Mi piacevano le tragedie greche, tantissimo. E in greco ero molto bravo, in storia della letteratura. E non lo ero per niente in grammatica.
Poi, sono sempre stato molto affascinato dal racconto orale. Io credo di dovere molto a una figura mitica della mia infanzia, che era il mio nonno paterno, un autodidatta che sapeva la Divina Commedia a memoria, e ce la recitava per tenerci buoni.

Uno spettatore: Come è stato il tuo rapporto con Alessandro Baricco? Che cosa ha detto Baricco quando ha visto il film?

Tornatore: Sono stati rapporti perfetti. Quando gli ho espresso il mio apprezzamento per la sua storia, e il mio desiderio di farne un film, ne abbiamo parlato un po’, gli è piaciuta l’idea, ha ceduto i diritti. Io gli ho fatto leggere per correttezza due stesure della sceneggiatura. Mi ha dato dei pareri molto generali, per telefono. Ma non ha partecipato alla sceneggiatura, era stato solo uno degli accordi di partenza. Non ha mai voluto vedere il film prima che uscisse nelle sale. Questo lo aveva detto quattro mesi prima che io cominciassi a girare, ed è stato fedelissimo, “novecentiano”, coerente fino alla fine. Quando c’è stata la conferenza stampa per l’anteprima del film, un po’ tutti hanno chiesto di vederlo insieme agli attori. Io gli ho mandato un messaggio affettuoso, chiedendogli di fare un eccezione alla regola, ma lui molto gentilmente mi ha spiegato perché avrebbe preferito di no. Io l’ho trovato un atto di fiducia nel film. Generalmente lo scrittore è diffidente, e ti dice che vuole vederlo prima per decidere se mettere “ispirato a” o “liberamente ispirato a”. forse si è accorto che il tipo di racconto che volevo fare io, era un investimento di energie tale che ne ha avuto rispetto.
Al cinema, l’ha visto il primo giorno che il film è uscito, mi ha chiamato al telefonino e mi ha detto: “L’ho visto. Mi è piaciuto molto”. Poi ci siamo incontrati, sono andato alla sua scuola, abbiamo passato un pomeriggio insieme. E’ stato un ottimo rapporto.

Cosulich: E che ci dici di Lajos Koltaj, il direttore della fotografia?

Tornatore: E’ stata una persona straordinaria, ha fatto un lavoro meraviglioso. Vi racconto perché ha diretto lui la fotografia del film. E’ stato uno di quei bizzarri incidenti che capitano nel cinema, e che talvolta riservano delle bellissime sorprese. Il film doveva farlo il direttore della fotografia de L’uomo delle stelle: e cioè Dante Spinotti. Avevamo già cominciato a parlarne e a lavorare insieme. Senonché le riprese del film sono slittate, e questo ha creato dei problemi a Spinotti, che era già impegnato per un film di Michael Mann negli Stati Uniti. Così è dovuto scendere dalla nave prima che partisse. E io ero già in piena preparazione, e non sapevo come risolvere il problema. Alcuni direttori della fotografia che conosco erano impegnati anche loro. E chiesi a Dante: “Suggeriscimi qualcuno”.
Se chiami Lajos Koltaj avrai una bellissima sorpresa. Lo conosco. Il nome non mi diceva nulla, poi quando mi ricordò che era il direttore della fotografia di Szabò, mi sono ricordato immediatamente del film che aveva fatto. L’ho chiamato, e lui mi disse: “In questi giorni, non spero altro che di fare un film in Europa, perché da cinque anni lavoro negli Stati Uniti e mi manca l’Europa. Vengo volentieri”. E’ venuto, ha fatto il film, ed è stata una collaborazione straordinaria.

Uno spettatore: Una domanda polemica. A proposito dell’immagine della Statua della Libertà ricostruita con il computer, o delle masse virtuali, mi domando se questo sia eticamente corretto. Se da una parte può contribuire a facilitare la produzione di un’opera molto bella come la sua, dall’altra potrebbe essere la prefazione ad uno scenario abbastanza apocalittico, come quello di un cinema fatto da attori fantasma...penso ad esempio al Corvo. Il sindacato degli attori che direbbe?

Tornatore: E’ interessantissimo quello che dici. Nel caso del mio film gli effetti speciali si chiamano così, ma io sento che è una definizione impropria – avevano tutti lo scopo di produrre un esito realistico. (Mentre per la gente effetti speciali fa subito pensare ai marziani). Talvolta abbiamo risolto problemi espressivi ricorrendo alla tecnologia. Non lo abbiamo fatto per l’intero film. Anzi: il film al novanta per cento è stato fatto artigianalmente come si fa il cinema in Italia. Per quella sequenza, poiché non si poteva realizzare la Statua della Libertà vera in quel modo lì, siamo dovuti ricorrere al computer. Questo per quanto riguarda il mio film. Per quanto riguarda l’argomento che tu proponi, si dovrebbe aprire una discussione molto profonda. In futuro è facile immaginare che si potranno fare film senza nemmeno andare più sul set. Hai ragione tu. Non è solo un fatto di costi. In futuro il linguaggio delle immagini acquisterà le stesse prerogative del linguaggio della scrittura. Oggi ciascuno di voi può andare a casa a scrivere un libro. Oppure la mattina si sveglia, ha fatto un sogno che lo intriga particolarmente, e decide di fissarlo su una pagina, o in un file del computer. Poi magari un giorno questo sogno gli torna in mente, questa paginetta gli piace, ci lavora un po’ su, la sviluppa e diventa un racconto. Magari una sera conosce un editore in una festa, glielo pubblica e scopre un grande scrittore.
Questo oggi con il cinema non si può fare. In futuro io credo che ci si arriverà. Ciascuno di noi, chi vorrà - si aprirà poi un altro discorso sull’analfabetismo del linguaggio visivo, delle azioni vere e proprie, così come si scrive. Tu ti svegli una mattina e dici : “Ho sognato John Wayne che andava a Piazza Navona a prendersi
un caffè”. Apri il computer, prendi Piazza Navona, la vuoi più dall’alto, più dal basso, con il grigio, senza il grigio, con la pioggia o senza. Con un po’ di gente, no con meno. Con più o meno turisti. E fai un racconto visivo. Prendi appunti non letterari, ma visivi. Ritagli la testa di John Wayne da qualunque film o da una fotografia e il computer la anima. Gli dai la voce che vuoi. Poi se il tuo racconto è orribile rimarrà nel tuo computer, se fai un pezzo di grande cinema un giorno potrà esserci un distributore che te lo fa uscire.
Cosa vuoi che ti dica sull’etica dell’autore? Oggi di che etica vuoi parlare rispetto alla parola scritta? Quando apri il giornale e sai che tre quarti delle parole che vengono attribuite alla gente non sono state dette o comunque non in quel modo. E’ uno scenario inquietante, che crea molte paure all’autore classico. Ma tutti potranno fare il loro film, se vorranno.

Una spettatrice: Che significato ha per lei il fatto che Novecento non scenda mai dalla nave? Qual è la valenza metaforica del personaggio?

Tornatore: Beh, non è facile definire la valenza metaforica di un personaggio in pochi punti precisi: questo, questo, e quello. Quando ci si riesce vuol dire che non era metaforico. Il tema è sconfinato. Ognuno lo può affrontare come preferisce. Le potrei fare mille esempi, tutti giusti o sbagliati e mai esaurienti. Ciò che mi venne in mente, riflettendo e scrivendo su questo tema, è che ciascuno di noi ha una nave dalla quale non scende mai nella propria vita. Noi viviamo sfruttando pochissime delle possibilità a nostra disposizione. Conosciamo pochissime persone rispetto a quelle che potremmo conoscere. Facciamo lo zero virgola – chissà quanti altri zero potrei aggiungere prima dell’uno – dei lavori che potremmo fare. Il confronto fra il destino di un individuo e le potenzialità che la vita gli concede è un argomento inquietante.
C’è un racconto, del quale mi sfugge il titolo, di Mark Twain. Si svolge in Paradiso. C’è un gran subbuglio perché sta arrivando un grande personaggio, un grande uomo di guerra, un generale. Chiamano Napoleone e altre personalità, per accogliere questo stratega. Arriva, ed è un falegname. Napoleone e gli altri: “Ma è un falegname?!”. “Sì – spiegano – ma se avesse intrapreso la carriera militare sarebbe diventato il più grande stratega della storia dell’umanità, e noi lo festeggiamo lo stesso”. Nel finale del film, Novecento esprime lo smarrimento di ciascuno di noi, rispetto ai nostri mille destini possibili. Che non abbiamo intrapreso, forse perché non siamo poi tanto disposti a cambiare. Se ci pensate bene, non è che si cambia tanto. Certe volte ci illudiamo di cambiare nel corso della nostra esistenza, ma forse perché cambiano le cose che sono intorno a noi. Ma stringi stringi noi abbiamo sempre lo stesso carattere. Sono questioni che quando finisce il film, ti restano dentro. A me piace quando un film ti lascia un segno, ti costringe a pensarci ancora. Quando esci dal cinema e ti senti come uno che si è soffiato il naso con un fazzoletto e lo butta via, mi piace meno.

Uno spettatore: Io vorrei fare una domanda sul linguaggio. Io non vedo tanti registi che tentino di innovare il linguaggio cinematografico...

Tornatore: Io ho la sensazione quasi opposta, invece: che ci sia un’inquietudine continua a cercare. Nel cinema, ormai, la grammatica che prima era intoccabile, non la segue più nessuno. Si può dire che ogni autore segua una grammatica propria, che si inventa giorno dopo giorno. Talvolta non te ne accorgi vedendo i film, devi essere un addetto ai lavori.
I nuovi mezzi, la tecnologia danno una grande libertà di invenzione. Io credo invece che il punto focale che non cambia mai è l’importanza di ciò che si racconta. Questo è più importante della ricerca del linguaggio. Ogni storia si può raccontare in mille modi. Un esercizio importantissimo, dopo che ho stabilito il soggetto e la sceneggiatura, è chiedermi: in quale altro modo si potrebbe raccontare il film? E talvolta vengono fuori delle suggestioni, che possono anche metterti in crisi. E se questo accade, vuol dire che la scelta che stai seguendo non ti convince fino in fondo, o non è quella giusta. Ho imparato questo esercizio grazie a dei meravigliosi incidenti che il cinema mi ha onorato di procurarmi. Quando ho fatto Il camorrista, il preventivo era alto per un’opera prima: tre miliardi e mezzo, nell’85. Dieci giorni prima dell’inizio delle riprese, il produttore, Goffredo Lombardo, mi chiamò e mi disse: “Il film non si può fare. E’ troppo costoso”. (Lo dico sempre ai giovani: quando stanno per cominciare le riprese del tuo film, succede sempre qualcosa per cui il film non si può fare. Ma sempre.) Io ero disperato. Lui mi provocò: “Tu hai molta fantasia. Fatti venire un’idea per far diventare questo film meno costoso”. Mi sembrò una provocazione molto intelligente, che mi ha insegnato moltissimo. Io non feci altro che pensare a questo. Era un venerdì. Lunedì tornai dal produttore e dissi: “Ho un’idea straordinaria, grazie alla quale il film costerà un terzo”. “Straordinario! Che idea è?”. “Il film comincia con questo giovane che ha compiuto un omicidio che noi non vediamo. Lo arrestano e lo condannano all’ergastolo. Passa la vita dentro una cella. Gli altri lo vengono a trovare. Gli dicono come vanno le cose. Lui ordina omicidi, altri eseguono. Noi non vediamo mai niente. Tutto si svolge in un solo ambiente”. Lombardo disse: “Che razza di proposta è? Secondo te, chi andrebbe a vedere un film così?” “Questo non lo so. E’ la mia idea che risponde alla tua provocazione”. “Va be’, andiamo avanti col film”. E si fece il film da tre miliardi e mezzo. Voglio dire: tutte le storie si possono raccontare in altri modi.
Anche Novecento si poteva raccontare in un luogo chiuso. Non lo so. Forse. Sarebbe stato un bellissimo film. Io ho preferito farlo così.

Uno spettatore: Mi sono accorto, ripercorrendo con la memoria i suoi film, che ci sono temi e immagini ricorrenti. Addirittura nella Leggenda ho ritrovato il tema del crollo, della demolizione, che c’era in Nuovo cinema Paradiso (dove veniva demolito il cinema). La stessa ricerca ossessiva di volti, che c’era nell’Uomo delle stelle. Fino a che punto lei è consapevole di questo processo?

Tornatore: Domanda bellissima. Devo dire che una delle cose più eccitanti del mio mestiere è quando, in un caso come questo, qualcuno ti dice: in questo film lei è fatto qualcosa che è simile o ha lo stesso significato di quella che aveva fatto dieci anni fa in quell’altro film. Sono momenti straordinari, perché io non me ne accorgo. Ci sono, è vero, elementi ricorrenti. Ma è sempre stato il pubblico a farmelo capire.
Tempo fa una studentessa ha scritto una tesi di laurea su due dei mie film Nuovo cinema Paradiso e Una pura formalità, e dimostrava che erano uguali. E tirava fuori delle argomentazioni, alcune veramente incontrovertibili.
Che nella Leggenda ci siano degli elementi che ricordano Nuovo cinema Paradiso, me lo hanno già detto altri. Qualcuno mi ha detto che, in fondo, basterebbe sostituire la nave con il cinema, e fare di Novecento un Totò che non va via e che rimane lì. E’ vero, in fondo. Ma io non ci avevo pensato.
Quando all’inizio Cosulich diceva di sentirsi spiazzato dai miei film, vi confesso che questo a me piace molto. E al contempo, mi piace cambiare, spiazzare, me stesso se possibile e anche gli altri, e tuttavia mantenere alcuni elementi di continuità.
Ogni mio film è un cambio netto, rispetto al precedente. Io credo che questo dipenda da due elementi. Quando finisco un film, mi documento talmente tanto, lo vivo fino in fondo, da conservare infine l’impressione che su quel tema più di quello che ho detto non posso dire. L’altra spiegazione è più forte: io sono affascinato, o se volete ossessionato, dal complesso dell’opera prima. Quando faccio un film, devo riuscire a ricostruire quegli elementi di non conoscenza, o di paura, che, quando ho girato la mia opera prima, mi hanno dato una grande carica.

Uno spettatore: Lei che ne pensa di come vengono proiettati i film nelle sale cinematografiche italiane?

Tornatore: Questo è un problema molto delicato. A me dispiace che ogni volta che affronto questo tema, gli esercenti si risentano come se io volessi fare un discorso contro di loro.
Mi piacerebbe che i miei film, come quelli dei miei colleghi, venissero offerti nelle sale cinematografiche così come gli autori li hanno licenziati in sala missaggio. Purtroppo, questo accade molto raramente. Benché ci sia un gran fiorire di sale – dato molto positivo, di cui va dato atto agli esercenti, perché sono loro che investono per questo - va riconosciuto che a questa crescita quantitativa non corrisponde adeguatamente la crescita della qualità. Salvo rare eccezioni, nelle nostre sale i film si vedono malissimo. Quando esce un mio film – gli esercenti lo sanno, mi sopportano – faccio miriadi di sopralluoghi nei cinema. E spesso devo far cambiare un obiettivo qua, una lampada là, far rivedere l’impianto sonoro qui, aggiustare il mascherino lì: ma continuamente! E’ una situazione veramente incresciosa.
I nostri esercenti dovrebbero imparare che una sala cinematografica va curata in continuazione: ogni anno bisognerebbe fare un controllo generale, e se c’è qualcosa che non va, si dovrebbe cambiare. Invece molti - non tutti, per carità – continuano a ragionare come negli anni Cinquanta, quando si costruiva una sala e si pensava che per sessant’anni dovesse restare così, finché gli schermi non diventavano color cartone.
L’automazione delle cabine di proiezione stranamente ha determinato un’involuzione della qualità. Una volta c’era un rapporto diretto fra lo spettatore e chi proiettava. Se vedevi il fuori quadro, se vedevi sfocato, fischiavi e qualcuno dall’alto li ascoltava. Oggi puoi fischiare, ma tanto non ti ascolta nessuno, perché in cabina non c’è nessuno. E infatti il pubblico si è abituato a non protestare. Se esci e lo vai a dire, ti rispondono: “E’ la copia”.

Uno spettatore: Com’è il suo rapporto con i critici cinematografici?

Tornatore: Non c’è da dire molto sul mio rapporto con i critici. E’ stato un rapporto dialettico, di confronto, vivo tutto sommato. Ci sono stati momenti drammatici, di incomprensione. All’inizio non mi sentivo preso molto sul serio. Però forse era sbagliato da parte mia pretendere che ai primi due film si occupassero di me come se fossi stato uno che ne aveva fatti tanti. Io ho sempre accettato il giudizio dei critici.
Non mi aspettavo che le critiche della Leggenda fossero cos’ straordinarie. Perché sono state straordinarie. Sono contento perché l’ottanta per cento dei maggiori critici italiani ne ha scritto bene. E non tanto perché ne hanno scritto bene, ma perché hanno esposto argomentazioni che dimostravano un lavoro analitico serio. Avevano trovato suggestioni importanti. Avevano intercettato la serietà con cui ho fatto il film. Non è che il critico per un regista è bravo solo perché dice che il suo film è buono. Un buon critico può fare un ottimo servizio a un regista, parlando criticamente di un suo film. Quello che non accetto è il ricorso all’insulto. Quando dicono questo film è brutto perché Tornatore è antipatico – come è successo – io non li ritengo critici. Ed è bene che questi signori parlino male dei miei film. Una mia ossessione è che un giorno possa aprire il giornale e leggere che a Fofi sia piaciuto un mio film. Spero che questo non accada mai, perché vorrebbe dire che a quel punto ho cominciato a decadere.

(L'incontro con Giuseppe Tornatore, promosso dalla Biblioteca del Cinema "Umberto Barbaro" e dalla rivista Cinemasessanta, si è svolto presso la libreria Bibli di Roma, nel novembre 1998)


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