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Incontro con Paolo e Vittorio Taviani

Da: CINEMASESSANTA – n° 3 – Maggio / Giugno 1998

Mino Argentieri – La scuola da cui escono i Taviani è il documentario: dei molti realizzati, in gran parte pressoché sconosciuti per la difficoltà di reperirli, uno ha avuto una sua notorietà, anche per gli incidenti censori che gli capitarono, cioè San Miniato ’44, una rievocazione di quell’episodio in cui i tedeschi commisero un eccidio e che in gran parte è lo spunto da cui è nato il film La notte di San Lorenzo. Altra scuola, in senso culturale, è il neorealismo, i film di Visconti, di Rossellini e di De Sica; il neorealismo inteso come contributo culturale alla formazione di una coscienza critica e come riscoperta di valori visivi nella creazione cinematografica.
L’attività registica dei Taviani si dispiega negli anni Sessanta e risente di un periodo in cui arriva sugli schermi una nuova generazione di autori: De Seta, Olmi, Pasolini, Petri, Bernardo Bertolucci, Vancini, Tinto Brass, Ferreri e altri, cineasti che si sono abbeverati ai film del dopoguerra e anche al grande cinema che i cineclub andavano riproponendo. Si tratta di autori che in un modo o nell’altro sono anche in sintonia con le nuove ondate emergenti in Europa e in America. Registi molti e diversi, non riconducibili a una tendenza che li accomuni, ma tutti indirizzati verso un cinema d’autore, teso cioè alla maggiore coerenza creativa e svincolato, nei limiti del possibile, dal rispetto delle regole e delle convenzioni tanto care a quanti inseguono l’obiettivo del successo commerciale, mettendo nell’impresa scarsa inventiva.
Ciò che balza agli occhi, sin dai primi film dei Taviani, sin da Un uomo da bruciare, I fuorilegge del matrimonio, Sovversivi, Sotto il segno dello scorpione, è una ricerca che reca in sé tracce dell’insegnamento del neorealismo, ma che al tempo stesso quell’insegnamento vuole oltrepassare, senza ripudiarne l’essenza. Quei film conservano del neorealismo non solo lo spirito, le implicazioni più radicali, ma riprendono la marcata inclinazione analitica e poetica che è stata propria di Rossellini e per altri versi, ma non divergenti a mio parere, di Zavattini, non tanto dei film suoi più riusciti ma direi dello Zavattini teorico estremo di un cinema non più forzato nei panni stretti delle misure romanzesche.
Nei film del decennio Sessanta si avverte al di là delle preferenze poetiche dei Taviani, una scelta che non privilegia né l’indagine psicologica né la macchina narrativa, fra l’altro mostrando di non avere nessun interesse a un cinema che sia mimesi del quotidiano e della natura. In ciò distinguendosi da molti altri loro colleghi e da gran parte del neorealismo italiano, che era stato diviso tra i moduli della commedia di costume a tinteggiature amarognole, e i modello del racconto a tutto tondo di derivazione ottocentesca. I Taviani recepiscono invece suggestioni che provengono da altre fonti, una delle quali è quella di Brecht, un drammaturgo e un poeta che, pur ispirandosi alla concretezza della realtà storica e sociale e alla definizione di personaggi provvisti di una certa verosimiglianza di comportamenti, mira a uno scavo che pervenga a una generalizzazione e materializzi un’astrazione.
In tal senso, la via percorsa dai Taviani, a me sembra abbastanza inconsueta, distaccandosi sul piano formale dal neorealismo e familiarizzandosi sempre più con un segno fortemente stilizzato. Non ci sono debiti pagati al naturalismo nel loro cinema, che in questo punto si distingue nettamente dal neorealismo. Le opere successive a Sotto il segno dello scorpione, ossia San Michele aveva un gallo, Allonsanfan, Padre padrone, Il prato, La notte di san Lorenzo, Kaos, pur nella loro varietà e nella diversità dei risultati, conservano assieme a quelle che verranno dopo i tratti distintivi che abbiamo scorto fin dalle prime opere, anche se qualche spostamento sarà accertabile nella poetica degli autori. Infatti, mentre in molti film degli anni Sessanta e Settanta il motivo poetico di un anelito all’utopia, di un mondo totalmente riscattato da ingiustizie e dolori immensi, un’utopia che la storia provvede a ridimensionare, non negandone la necessità, nei decenni successivi, questo stesso motivo, pur non scomparendo del tutto, cede il passo a un bisogno di razionalità volto all’approfondimento di una dimensione umana, che però mai coincide con il rifugio nelle cavità dell’individualismo e del vittimismo.
Naturalmente, sto semplificando un percorso artistico che, proprio perché si è svolto e si svolge all’insegna del rigore, poco si presta a un disegno sommario. Questo però è il mio compito, nell’introdurre la discussione su due autori a cui sono statio dedicati molti saggi, e la discussione vuole prendere le mosse dal loro ultimo film, Tu ridi, ritenuto da noi della biblioteca Barbaro e da Cinemasessanta uno dei migliori e dei più rappresentativi della stagione ‘97/’98.
Per iniziare il dialogo, vorrei rivolgere ai Taviani una prima domanda. Vi riconoscete in questa veloce istantanea che ho cercato di fare?

Vittorio – E’ sempre difficile riconoscersi in una disamina critica fatta con tanta acutezza. Mi riferisco non solo a quello che Argentieri ha detto oggi, ma a quello che lui e la rivista hanno scritto in genere sul nostro cinema. Direi dunque di sì. Forse, sostenere che siamo partiti col piede destro nel documentario, è vero solo parzialmente. Il documentario è stato per noi la prima maniera per avere finalmente la macchina da presa in mano e cominciare a fare il cinema. Ma proprio facendo i documentari e alla fine lavorando con Joris Ivens, ci siamo resi conto che la nostra strada non era quella. Ivens ci ha fatto capire che il tasso di creatività che c’è nel fare un certo tipo di documentario è una qualità molto particolare che egli aveva, e di cui noi forse non eravamo sprovvisti, ma che non ci apparteneva e non ci interessava.
In questo senso, il rapporto con Zavattini è innanzitutto di enorme riconoscenza. Lo abbiamo conosciuto giovanissimi. Avevamo deciso di fare il documentario su San Miniato, con Valentino Orsini, e ci è venuta l’idea di andare da colui che era considerato un maestro del cinema; abbiamo preso un’auto a nolo, siamo venuti a Roma e abbiamo bussato alla porta di Zavattini, che non ci conosceva, alle otto del mattino. Si mise subito a nostra disposizione. Il fatto che ci siamo rivolti a lui nasceva dal nostro amore per Umberto D., Ladri di biciclette, più che dalla sua teoria del pedinamento, dove il cinema correva il rischio di un certo naturalismo, anche se l’idea di Zavattini di distruggere le strutture del racconto era un’idea rivoluzionaria. Ci siamo resi conto che a noi piaceva raccontare storie di fantasia, naturalmente radicate nella realtà, ma infiltrando il rapporto diretto con le cose attraverso invenzioni libere, anche irrealistiche, in maniera che i nostri film potessero passare continuamente da un dato concreto a una latitudine che andasse al di là del dato.
Ci è sempre piaciuto lo spettacolo: amiamo per esempio, nella cultura italiana dell’Ottocento, il melodramma anche perché è stato per noi bambini il primo incontro con lo spettacolo. Ci piaceva che sul palcoscenico avvenissero cose strane, tutte finte, false, ma tutte meravigliosamente belle e vere.

Paolo – Visto che si è parlato di documentari, racconto un episodio abbastanza recente, che parte però da un po'più lontano. Noi abbiamo fatto dei documentari in genere mediocri, a parte l’incontro con Ivens e a parte San Miniato ’44. Ce ne sono due, però, a cui in fondo teniamo, anche se non ne esistono più le copie. Si intitolano Curtatone e Montanara e Carlo Pisacane. Nel primo, sulla spedizione degli studenti pisani contro gli austriaci nel 1848, raccontavamo la preparazione della spedizione e l’andare verso il campo di battaglia, dove molti moriranno. Poiché non c’era una lira, ma soprattutto per nostra scelta poetica, tutto il racconto era in soggettiva. Si vedevano solo i luoghi, commentati fuori campo dalle voci di questi ragazzi che scrivevano a casa: andando su al Nord, scoprivano l’Italia. Una lunga carrellata soggettiva. Così fu anche Carlo Pisacane, dal Nord a Sapri, sino alla strage, solo evocata. Dopo aver realizzato i due documentari, che furono regolarmente bocciati, facendo rimettere soldi a molti parenti e amici, mi telefonò una grossa produzione, che stava preparando un film di Carlo Ludovico Bragaglia, un peplum sulla storia di Cristo, con grandi scene di massa, battaglie e duelli. Poiché si era sentito dire che nei nostri documentari avevamo diretto delle masse per due racconti risorgimentali mi proposero di fare l’aiuto regista. Io andai e mi trovai davvero di fronte a trecento, cinquecento persone da dirigere: tutti si rivolgevano a me, incluso lo stesso Bragaglia, in quanto io risultavo lo specialista nella direzione delle masse. Da esaurimento nervoso...Imparai molto sull’organizzazione cinematografica, ma soprattutto quello che non avremmo mai dovuto fare nei nostri film...
Poco prima di morire, Bragaglia mi chiamò: mi disse che era diventato cieco, ma che aveva scritto un libro, in cui andavano pubblicati disegni di tutti i suoi collaboratori. La stessa cosa chiedeva a me. Non sapendo disegnare, io mi offersi di fare una dichiarazione. Lui insisteva per il disegno. Dopo un litigio telefonico, mi confessò che tutti gli ricordavano che lui aveva avuto come aiuto uno dei fratelli Taviani, specialista delle masse. Alla fine sbottò: “Ma che cazzo di film hai fatto con me?”. Il film si chiamava La spada e la croce. Fu l’ultima volta che lo sentii.
Questa è stata una delle nostre esperienze di assistentato al cinema e una testimonianza della nostra “fama” come documentaristi. Ma per tornare alla presentazione di Argentieri, mi piace come ha rievocato la temperie degli anni Sessanta, anche se questa volta ha dovuto farlo a brevi linee. La nostra generazione, che è nata dal neorealismo, negli anni Sessanta voleva andare oltre il neorealismo, voleva rifondare il cinema. In nome dell’amore che avevamo proprio per il cinema, sentivamo di poter ricominciare daccapo. Ci buttammo in questa impresa e ci univa, come ha detto Argentieri, non una scuola, ma questo sentimento comune a reinventare e la convinzione di poterlo fare. Era un’utopia, certo, un’illusione, ma era anche una spinta forte che ci ha permesso di realizzare i buoni film di quel periodo. Eravamo registi diversissimi gli uni dagli altri, non ci assomigliavamo in niente se non in questo stato d’animo.

Argentieri – Gran parte dei vostri film sono nati da soggetti originali, ma in questi ultimi anni non pochi discendono da testi letterari. Ricordo, per esempio, Padre padrone, Kaos, Il sole anche di notte, Le affinità elettive, e l’ultimo, Tu ridi. Anche se i vostri film non possono essere mai considerati illustrazioni audiovisive di opere letterarie, in quanto c’è sempre una reinvenzione, perché questo più insistente appoggiarsi alla letteratura?

Vittorio – Nell’ultimo film siamo partiti da un fatto reale e contemporaneo. Tu ridi che si è poi legato a Pirandello, è nato perché Paolo ed io stavamo lavorando a una storia di oggi, purtroppo vera, quella del bambino sequestrato e ucciso dalla mafia e poi dissolto nell’acido. Volevamo raccontare questa storia, perché la violenza del mondo si esercita sempre di più sulla parte innocente, sull’infanzia, sui bambini, vittime sacrificali di un tempo spesso atroce. Sentivamo il bisogno di esprimere questa angoscia, che è una angoscia diffusa, per il destino di coloro che dovrebbero essere i protagonisti della vita di domani.
Mentre lavoravamo all’episodio di questo sequestro, ci siamo ricordati di un altro sequestro, sempre in Sicilia, raccontato da Pirandello. Siamo andati a rileggerlo e abbiamo avuto la sensazione che le due storie, messe a confronto, potessero dare luce l’una all’altra, incontrandosi e scontrandosi. Era il modo per uscire sia dalla cronaca che dalla illustrazione, e per capire anche il tragitto che la violenza ha fatto nel corso di questo secolo, dato che la storia di Pirandello si svolge all’inizio del ‘900.
Più in generale, vorrei accennare a come lavoriamo io e Paolo. Molte volte lo abbiamo detto, ma vedo qui davanti un pubblico anche molto giovane e quindi mi prendo il rischio di ripetermi. Ci vediamo tutte le mattine, spesso andiamo in un parco vicino alle nostre case, e lì camminiamo e parliamo di tutto, di cose belle e di cose brutte, lette o vissute, di amori e di rabbie, di fatti minimi di cronaca e di fatti grandi della storia. Si parla, e a un certo momento si enucleano quelli che noi, in maniera tutta personale, chiamiamo i nostri incubi notturni, cioè quelle domande, quelle contraddizioni, che in quel momento della nostra vita si fanno così angosciosi che la notte diventano appunto incubi. Suggerito dalla realtà o da una pagina letteraria o da un incontro imprevisto, un evento diventa improvvisamente il nostro punto focale: abbiamo la sensazione che se raccontiamo quella storia, con il piacere quasi fisico di raccontarla, forse riusciamo a buttare fuori anche le nostre angosce notturne. Non è per avere risposte, perché il cinema non ne dà mai, ma se non altro per fare rimbalzare le nostre domande sugli altri, e da questo rapporto con gli altri non dico una risposta, ma forse un minimo di senso può nascere.
In questi ultimi tempi, è vero, il nostro incontro con il plot narrativo è scaturito spesso dal confronto con la letteratura. Ma faccio subito un passo indietro per dire che il ricorso alla letteratura, o alla retrocessione temporale, dipende da due motivi: stando dentro le grandi passioni del nostro tempo, personali, collettive, esistenziali, ci siamo resi conto ben presto che per riuscire ad esprimerle, e per dar loro senso e forma, un certo distacco era necessario. E qui forse il riferimento fatto da Argentieri a Brecht può tornare utile, anche se oggi ci suona assai lontano. Distaccarsi da una materia viva, palpitante, provocatoria, allontanando nel passato il racconto, ma non certo il senso; o cercando la mediazione di una pagina letteraria, poteva essere la maniera per riuscire a esprimere pienamente il nostro rapporto con la contemporaneità, senza essere prigionieri della cronaca e della moda.
Nonostante questa nostra volontà, Sotto il segno dello scorpione che è del ’69, viveva così intensamente della temperie di quel momento che, pur avendo raccontato una storia che poteva avvenire o in un lontanissimo passato o addirittura in un futuro fantascientifico, nelle recensioni abbiamo letto che il personaggio di Volontè era Mao, come quell’altro era Togliatti, e via dicendo. Si corre così il rischio, con la ricerca di riferimenti troppo puntuali al presente, di deviare il senso dell’opera.
Sempre a proposito del nostro rapporto con la letteratura, un insegnamento di Goethe ha lasciato forse una traccia profonda dentro di noi. Mi ricordo che, quando abbiamo scoperto Goethe, eravamo già a Roma. Goethe raccomanda a un giovane autore, ma anche a sé stesso, di non stare a consumare tutte le energie nel mettere insieme delle storie. Gli consiglia, invece, di prendere le grandi storie che nel corso del tempo si sono solidificate, le loro strutture narrative, e di reinventarle. Questo passo ci colpì profondamente, e forse spiega la ragione per cui, in questi ultimi anni la mediazione di una pagina narrativa magari del passato, ci ha permesso di dire più liberamente quello che pensiamo dei nostri giorni.
Riguardo a Padre padrone, il film non nasce dal romanzo, ma dal fatto che leggemmo, nelle cronache dei giornali, di un pastore che fino a vent’anni era rimasto quasi muto nella solitudine della sua tana in Sardegna, e che poi, nello spazio di pochi anni, per forza di volontà, era diventato glottologo: era passato dal silenzio, alla comunicazione per eccellenza. Fummo colpiti da questo personaggio che sente un tale bisogno di uscire dall’isola della solitudine, da riuscire a diventare professore di glottologia. Cominciammo a lavorarci. Poi abbiamo letto il romanzo, che ci è apparso come una grande inchiesta che Gavino Ledda aveva fatto per noi. Il libro è molto bello e noi lo abbiamo amato, ma abbiamo anche capito che era un materiale che bisognava scomporre, per adattarlo alle nostre esigenze. Questo per dire che il rapporto con la pagina scritta può nascere e articolarsi nelle maniere più diverse e impensate.

Argentieri – Visto che siamo in argomento, perché Pirandello così ripetutamente due volte nel giro di un decennio?

Paolo – Per Tu ridi, Vittorio ha accennato come è andata la faccenda. Abbiamo amato Pirandello, fin da ragazzi, soprattutto l’autore di teatro, l’autore metafisico, che graffiava la piccola borghesia con soluzioni di palcoscenico che ci hanno sconvolto nella nostra formazione culturale e di uomini di spettacolo. Ma non è a questo Pirandello che ci siamo ispirati. Mi ricordo che, dopo aver raccontato le storie della Sardegna, con Padre padrone, e della Toscana con La notte di san Lorenzo, decidemmo di tornare in Sicilia, per raccontare altre storie, affabulare.
Ci siamo andati, abbiamo fatto sopralluoghi, inchieste, incontri, raccogliendo materiali e la sera sul comodino c’erano le novelle di Pirandello. E’ stata una riscoperta, ci siamo accorti che il lavoro che stavamo facendo l’aveva già fatto per noi Pirandello, che parlava della sua Sicilia raggiungendo anche toni epici, nel raccontare della fatica del lavoro, del dolore, dei mondi magici delle sue campagne. Pirandello diceva che i racconti non li aveva scritti lui, ma Maristella, la sua governante, una contadina siciliana che viveva in casa dei genitori e che la domenica, all’alba, lo portava alla messa e gli raccontava le storie. I genitori erano diffidenti, perché sapevano che Maristella era anche troppo fantasiosa, di una fantasia che nasceva da una verità spesso crudele. Storie che alcune volte facevano tremare il piccolo Luigi, come quella dell’uomo lupo, che ulula nella notte alla luna.
Abbiamo preso dunque queste novelle, ma nel momento stesso in cui abbiamo cominciato a immaginare il film, come sempre ci è successo con gli autori da cui abbiamo attinto, siamo andati per la nostra strada. Spesso ci siamo chiesti, io e Vittorio, che cosa potrebbe dire Pirandello, se venisse a vedere il nostro Kaos. Qualche emozione la proverebbe, almeno io spero. Ma al tempo stesso ci direbbe: “Ragazzi, io con queste storie c’entro poco...”. Anche perché le soluzioni finali in Pirandello hanno un tono grottesco, buio, scontroso, mentre nel nostro film c’è una impennata di tipo diverso, quasi una richiesta, magari disperata, di senso, di un qualche senso. Per Tu ridi ci siamo confrontati anche con le sue novelle metropolitane. Le abbiamo mischiate fra loro, con estrema libertà, le abbiamo fatte reagire con pezzi della nostra contemporaneità. Un filo rosso lega i due, anzi tre episodi del film, ed è il filo rosso della violenza. Violenza nella storia di Felice durante l’epoca fascista; una violenza che corrompe anche l’anima dei buoni, popolando le loro notti di incubi di atroce malvagità; violenza nella storia del dottor Ballarò agli inizi del secolo, in Sicilia, sequestrato su un monte selvaggio da tre giovani pastori, selvaggi anch’essi, ma per necessità, per fame; violenza nella storia ispirata, come abbiamo detto, al fatto reale del figlio di un pentito di mafia, che viene ucciso per punire il “padre che ha tradito”.

Vittorio – Sì, il filo rosso della violenza, m anche un filo azzurro che lega anche storie d’amore. Per noi è una storia d’amore non solo quella che riscalda Felice per lo spazio di una giornata, incontrando di fronte al mare, Nora, la giovane cantante, di cui un tempo forse fu innamorato; è una storia d’amore quella che si instaura tra i due giovani sequestratori e il vecchio dottor Ballarò, che fa scoprire loro, attraverso la scienza, gli orizzonti più vasti che esistono al di là della loro vallata. Ma noi vogliamo anche dire che è una strana storia d’amore quella del bambino sequestrato dalla mafia: ama il disegno e grazie al disegno scopre, nella solitudine della sua prigionia, che qualcuno è vicino a lui, che ne ha pietà, che conosce il suo dolore e piange con lui. Scopre – se voi ricordate il finale del film – le immagini di Giotto, la sua Strage degli Innocenti, i suoi angeli che gridano lo strazio per il male del mondo. E’ una voce, quella di Giotto, che viene da lontano, ma ha la forza dell’arte, che certo non libera dalla violenza, ma dà consapevolezza e testimonia di un’altra dimensione possibile, dove l’uomo è amico all’uomo. E poi infine – per noi ha molta importanza – il nostro film è attraversato dall’amore per lo spettacolo, per quel momento magico che si stabilisce tra il pubblico in platea e gli attori, i cantanti lassù sul palcoscenico, dove grazie alla giovinezza di Rossini e di Mozart, si rinnovano i ritmi più trascinanti della vita.

Paolo – Nonostante Mozart e Rossini, devo dire però che questa estate ho incontrato un amico: mi ha detto che il film gli è piaciuto, ma che alla fine lo ha lasciato troppo incupito. Probabilmente è vero: per questo forse gli incassi del film non sono troppo incoraggianti. Eppure noi siamo convinti che, come diceva Aristotele, se un’opera riesce a incutere pietà e terrore, l’opera è giusta e suscita energia, perché il terrore provoca il suo contrario, e cioè la ribellione, e la pietà spinge a rinnovare l’atto d’amore verso gli altri.

Uno spettatore – A proposito della linea azzurra, della gioia. C’è, molto. L’avete fatta sentire. Io desidero ringraziarvi moltissimo per il modo con cui con grande poesia d’immagine avete contribuito alla memoria storica del mondo contadino, arcaico. Si sente, profuma, è una cosa magnifica. Tu ridi è bello perché c’è la natura, è presente il sasso e il fiore. La memoria delle nostre origini, del contatto con la terra, è importantissima. E poi vi ringrazio molto per questo omaggio alla sofferenza dei bambini, perché è questo mondo debole, che è del contadino, del bambino, della natura, del mondo artigianale, che dimentichiamo, che poi ha invece la potenza del cuore.

Bruno Torri – Sono state ricordate le vostre radici e le vostre origini sia da Argentieri che da voi. E si è ricordato come all’inizio degli anni Sessanta, per tutto un decennio e poi forse all’inizio degli anni Settanta, c’è stato una grande tensione etica e poetica, quel clima da cui sono nati nuovi modi di raccontare e nuovi territori contenutistici da perlustrare.
Alle cose che Argentieri ha detto nell’introduzione, aggiungerei un aspetto a proposito del vostro cinema di quegli anni. Assieme a un’attenzione ai contenuti, c’era, ancora più forte, una tensione per la ricerca espressiva. Il vostro era sempre un cinema di ricerca, pur lavorando sui significati: ciò che si avvertiva maggiormente era appunto la ricerca e la tensione stilistica, la volontà di parlare in modo nuovo, che allora si chiamava il rischio stilistico.
Bene, indubbiamente quel clima che c’era in quel periodo e che ci accomunava tutti, a un certo punto si è dissolto, le utopie sono cadute e c’è stato il riflusso. Ci siamo fermati, abbiamo imboccato altre strade, qualcuno si è smarrito, qualcuno invece ha cercato ostinatamente di andare avanti, magari un po’ pateticamente. Voi, a mio avviso avete scelto una strada caratterizzata soprattutto dalla volontà di raccontare, dal piacere della narrazione: la tensione più che verso la ricerca espressiva è ora orientata verso l’affabulazione. Anche il ricorso alla memoria, al passato, alla letteratura, attraverso cui, con tutte le mediazioni cui avete fatto cenno, si può parlare di mondi del passato per accennare al presente, viene da voi interpretato con un intento più affabulatorio, mentre prima aveva anche il sapore della provocazione, della sfida verso l’esistente. Se prima correvate il rischio d una comunicazione ristretta ed elitaria, oggi il vostro cinema potrebbe correre il rischio di un certo accademismo, di una certa sicurezza nel narrare, di camminare su sentieri più sicuri, perché meno nuovi e meno arrischiati, percorsi anche da altri. Volevo chiedervi, quando voi avete sentito, se l’avete sentito, come l’ho sentito io e credo non solo io, un momento di svolta, di sconfitta, se volete, di caduta di tensione verso speranze utopiche, e come avete reagito a questo? E ancora, se il rischio dell’accademismo, è un fatto che nasce da una scelta totalmente voluta o anche in parte da una frustrazione subita.

Vittorio – Comincio con una cosa molto semplice: nostra madre ci ripeteva sempre, quando eravamo piccoli:”Ogni stagione ha la sua canzone”, e io aggiungo che per fortuna è così, perché se si vivesse soltanto in una dimensione, la vita sarebbe molto monotona. E’ chiaro che passare da una situazione ottimale a una dimensione più drammatica, più pungente, è sgradevole, ma in ogni caso è l’unico modo per continuare a interrogare il presente, la tua storia, la tua vita personale.
Questo è un fatto che riguarda la generalità delle esperienze degli uomini. Noi abbiamo vissuto gli anni del ’68 con tutta l’appassionata partecipazione della nostra generazione. Con Sotto il segno dello scorpione teorizzavamo, addirittura come uomini di cinema per i quali la tensione politica è soltanto un retroterra, che poiché il pubblico era stato addormentato da un certo tipo d film soporiferi, era necessario con i nostri film dargli un cazzotto sul naso: certo il pubblico si sarebbe ribellato, ma era quello che volevamo: il trauma lo avrebbe fatto balzare sulla poltrona e probabilmente avrebbe cominciato a porsi degli interrogativi.
Queste sono posizioni estreme, e hanno il valore del tempo in cui sono esplose. Importante è che poi il film, una volta realizzato, non sia scomposto come un cazzotto sul naso. E’ stato un periodo forte, libertario, fondamentale, una grande esperienza del dopoguerra, dopo quelle del neorealismo. Ma il movimento del ’68 aveva in sé gli elementi della sua fine; in fondo era un grande desiderio utopico che non aveva radici in masse più larghe, era tutto sommato elitario e non poteva realizzare i sogni immensi e meravigliosi che si era proposto.
In seguito, il senso ruvido, traumatico della scoperta delle contraddizioni del reale L’abbiamo vissuto con sgomento, mai però con frustrazione. Frustrazione significa convincersi che la strada su cui hai camminato insieme agli altri era veramente sbagliata. Noi questa sensazione non l’abbiamo mai avuta e non l’abbiamo tuttora. Pensiamo che quella strada aveva una certa direzione: poi abbiamo scoperto che si perdeva e bisognava cercarne un’altra. Ma l’indirizzo era giusto, e attraverso la scoperta dei propri errori, degli errori degli altri e del mondo, è venuto a stabilirsi un nuovo rapporto di conoscenza con le cose, e con la difficoltà del vivere. Quindi frustrazione mai, ma grande coscienza della drammaticità del vivere, sempre.
Rispetto a questi cambiamenti, c’è qualcosa che per noi ha significato molto sul piano del fare cinematografico ed è il rapporto con la televisione. In quegli anni la televisione salva il cinema italiano, perché si mette a produrre a basso costo. Padre padrone, Bertolucci, Olmi e tutto il buon cinema degli anni Settanta è co-prodotto dalla televisione. Noi due, al momento, non ci poniamo il problema del piccolo o grande schermo: facciamo la nostra opera audiovisiva, poi si vedrà dove passerà. E invece rendersi conto a poco a poco che la tua opera entra in un rapporto con gli altri di dimensioni numeriche grandissime agisce in te prima in forma inconscia e poi cosciente. Quando in seguito abbiamo saputo che Padre padrone è stato visto nel mondo da un miliardo e mezzo di persone, abbiamo capito che qualcosa in noi si stava modificando. In questo senso: che il rigore doveva essere ancora maggiore, perché la responsabilità era ancora più grande; che il linguaggio doveva rimanere ugualmente severo, ma alla ricerca di una maggiore trasparenza, di un rapporto più diretto con la comunicazione. Questo ha significato per me e per Paolo scoprire il senso e il fascino dell’affabulazione.come nel passato la collettività si riuniva intorno al fuoco per raccontarsi delle storie, la televisione – ma questa forse è una visione troppo “poetica” – avrebbe potuto essere quel fuoco intorno al quale si raccolgono grandi collettività e dove si raccontano grandi storie. Il nostro cinema è andato in quella direzione e, per rispondere a Torri, come spero che il nostro cinema di prima sia stato provocatorio ma non troppo..., cos’ può essere che il nostro cinema di oggi sia un po’ accademico ma non troppo. Ammesso e non concesso che... . Mi taccio: è un po’ buffo fare la critica alla critica.

Gianfranco Cercone - Volevo tornare al primo episodio di Tu ridi, di cui si è già parlato. Lei prima diceva che nel raccontare il passato, anche attraverso la letteratura non contemporanea, voi cercate di raccontare in via indiretta, per metafora, l’attualità. Mi interessava capire, riguardo al primo episodio, se parlando della piccola borghesia del fascismo la vostra intenzione fosse anche di individuare alcuni caratteri propri anche della piccola borghesia di oggi. Se nel secondo episodio il legame con l’attualità è molto dichiarato, nel primo episodio è più misterioso, più ambiguo.
Poi volevo chiederle se – al di là del vostro film – non è un po’ un limite del nostro cinema la mancanza di una volontà di opposizione culturale al presente, la mancanza di rabbia, di una qualsiasi contestazione. Non crede che questo rientri un po’ in un clima generale di rassegnazione, di adeguamento al presente?

Paolo - Vengo adesso da un viaggio al Cairo, dove ho incontrato molti registi del Medioriente, registi africani del Nord e del Sud, che hanno amato molto il cinema italiano, e mi chiedevano appunto perché il cinema italiano in questo momento non ci dà quegli stimoli che una volta ci dava. Mi sono trovato un po’ imbarazzato a rispondere, ma poi dialogando tutti assieme, ci siamo resi conto che non è un problema soltanto italiano, è un problema più ampio, questa mancanza di opposizione al mondo in cui si vive e di proposta per un modo diverso di far cinema.
A parte alcuni casi personali – ad esempio film che mi hanno emozionato sono Festen o Idioti – non ci sono gruppi di tendenza cinematografica. C’è qualcosa del genere nel cinema iraniano e nel cinema cinese, d Hong Kong. Il cinema iraniano si propone come un cinema che attinge alla realtà del suo popolo, ma senza fare film di tipo realistico o cronachistico, cerca un linguaggio che è quasi una sfida al pubblico, come facevamo noi negli anni Sessanta, con azzardi di tipo stilistico. Comunque, la conclusione a cui arrivavano questi nostri amici, in Egitto, era che il cinema – e così penso anch’io – non è in crisi ma è vicino a un momento di trasformazione, con i nuovi mezzi che vengono forniti allo spettacolo per interpretare la realtà. Credo che anche nel cinema italiano – che sta avendo una ripresa produttiva da due o tre anni, e quindi bisogna aspettare per dare un giudizio – le nuove generazioni e noi stessi, influenzati da loro, stiamo lavorando a un cinema che non è quello di ieri e che non si sa quello che sarà domani. Insomma mi sembra di avvertire qua e là, sotto la pelle un fermento nuovo. E spero che non sia soltanto una illusione.
Riguardo al mondo piccolo borghese di Tu ridi, quando scriviamo una storia io e Vittorio non pensiamo troppo al suo taglio sociologico. La prima parte del film è drammatica, ma sfocia qua e là nel grottesco, cosa che in genere non accadeva nel cinema italiano del passato: la tragedia e la commedia camminavano su binari paralleli. Oggi ci pare che anche nella realtà di ogni giorno la tragedia scivoli spesso nel grottesco e la commedia nella tragedia. Per questa ragione abbiamo scelto per i nostri due tragici protagonisti due attori che si sono imposti come attori comici. La loro è una comicità anomala, non realistica, volta ai piani dell’assurdo, e che accompagna i due personaggi ai loro esiti di morte.
A Lello Arena, nell’ultimo episodio del film, avevamo chiesto di ballare, perché la danza caratterizza il suo personaggio criminale e bizzarro.Ci siamo messi a studiare insieme una soluzione. Lello è venuto un giorno e ci ha proposto una danza stranissima: solo un’uomo dell’esperienza di palcoscenico quale la sua poteva proporre una danza che è un insieme di sci fondo, di tori e di toreri, di karatè e di quanto altro può suggerire lo stravolto universo giovanile. Il cinema è bello anche per questo tipo di collaborazione.

Uno spettatore - Si è accennato precedentemente alla situazione attuale del cinema italiano. Vorrei sapere da voi, che siete due dei maggiori protagonisti del cinema degli anni Sessanta, come considerare il cosiddetto “nuovissimo cinema italiano”, cioè la generazione dei vari Amelio, Tornatore, Moretti, o i più sperimentali Martone e Gaudino. Esiste davvero una rinascita del cinema italiano? E se esiste, al di là della ripresa produttiva, cosa accomuna i nuovi autori?

Paolo – Intanto c’è il problema della distribuzione, per cui i film non si riesce a vederli, e ne parla anche meno. Se lei pensa che i film di Venezia, il nostro, quelli di Amelio, Luchetti, Archibugi, Placido, non hanno una distribuzione decente, è chiaro che vanno malissimo e sono annullati dal cinema americano. Io amo il cinema americano, ma non la politica imperiale della sua distribuzione nel mondo. Gli stessi registi americani ci dicono: fate l’impossibile affinché il nostro cinema non distrugga la vostra cultura; esistiamo anche grazie al cinema che avete fatto voi in Europa, e invece il cinema americano sta soffocando queste fonti fondamentali per la nostra creatività.
Non voglio parlare dei personaggi che lei ha citato, perché sono tutti – o quasi tutti – di altissimo valore. Invece vorrei aggiungere questo: prima si parlava di crisi del cinema italiano e io accennavo a una crisi mondiale. Perché, per esempio in passato in Egitto si producevano 70 film all’anno e adesso se ne producono 15 soltanto, e nessuno va a vederli? Il cinema europeo, i nostri film e non solo i nostri, non hanno una distribuzione decente in Egitto, né in altri paesi del Medioriente, non circolano se non nei cineclub. Man mano che andiamo avanti, il cinema nel mondo è solo e soltanto il cinema americano. I giovani che guardano il cinema vedono quasi esclusivamente film americani, i belli e i brutti, omologando il linguaggio. Invece la qualità delle cinematografie dipende dal fatto che ognuna deve essere messa in condizioni non solo di produrre, ma anche di confrontarsi con il resto del mondo, di uscire negli altri paesi oltre che nel proprio, perché altrimenti sotto questa coltre è molto difficile poter creare dibattito, interesse, passione.

Vittorio – Questo non significa però nascondersi dietro il ditone dell’America, perché poi ci sono le responsabilità creative dei vari paesi. E’ necessario che le forze che si oppongono a questo tipo di omologazione siano vive, creative, che si colleghino da una nazione all’altra: che non si abbandonino alla rinuncia, perché – ricordiamocelo – il prodotto di intrattenimento medio ha sempre imperato sul prodotto di ricerca, e, se la ricerca non crea i suoi strumenti, è chiaro che finirà nel nulla. Ma l’umanità non è mai finita nel nulla. Cominciamo col fare alcune distinzioni, non esiste un pubblico indifferenziato, esistono vari pubblici; c’è un pubblico ad esempio, che per il tipo stressante di vita che fa, giustamente va al cinema per rilassarsi, non glielo possiamo impedire, ed è il più vasto. Esistono altri pubblici, con altre esigenze e altre aspettative. Come questo, per esempio, che si è riunito stasera qui in questa sala. Ma non voglio dire di un pubblico di élite, anche perché uno stesso spettatore può appartenere ora al primo genere di pubblico, ora al secondo. Nella nostra esperienza personale, andando in giro per il mondo con i nostri film, ci siamo resi conto che un non grande pubblico italiano più un non grande pubblico francese, giapponese, americano, svedese e via dicendo alla fine diventa un pubblico veramente grande, e che si consolida e si rinnova nel tempo. Vorrei concludere quindi con una esortazione e una confessione. La prima: guai a chi, gridando all’invasore, prende e scappa. La confessione (...so di contraddirmi): il desiderio più profondo e segreto di ciascuno di noi che fa spettacolo rimane sempre quello di mischiare pratiche alte e pratiche basse per avere così un unico grande pubblico senza tante connotazioni.

L'incontro, promosso dalla Biblioteca del Cinema Umberto Barbaro e dalla rivista Cinemasessanta, si è svolto alla libreria Bibli di Roma, nel dicembre 1998.


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