Incontro con Silvio Soldini
Da: CINEMASESSANTA
n° 233, Gennaio – Febbraio 1997
De Vincenti: Silvio Soldini vive a Milano. Ha
seguito dei corsi di cinema alla New York University. Ha lavorato
molto come regista di documentari di corti. Ha esordito nella regìa
di lungometraggi con L’aria serena dell’ovest
a cui è seguito Un’anima divisa in due, e Le
acrobate [...] La cosa che mi ha colpito quando ho visto L’aria
serena dell’ovest, ma anche gli altri suoi film, è
la densità di senso delle immagini, inusuale nel cinema italiano,
segno di una sensibilità cinematografica straordinaria. E’
un’immagine estremamente studiata, che recupera una tradizione
di dubbio, di interrogativo portato sulle cose. Penso che valga
la pena accettare l’opinione dei critici, che quando uscì
L’aria serena dell’ovest dissero: “Qui
siamo davanti ad una capacità di vedere che da noi ha avuto
forse solo Antonioni”. Vorrei chiederti se ti riconosci nelle
cose che ho detto. E se ci puoi raccontare il senso che ha avuto
per te andare negli Stati Uniti, studiare lì, e poi tornare
in Italia.
Soldini: Mi riconosco in quello che hai detto
non tanto per i paragoni con altri, ma soprattutto quando parli
di valore dato alle immagini. Questo ha fatto parte dei motivi per
cui ho deciso di imbarcarmi in questa avventura di tentare di fare
dei film. Perché fin dall’inizio mi ha affascinato
un cinema che dava grande importanza all’impatto visivo. Per
cui, prima di tutto, ho imparato non tanto cosa raccontare, come
scrivere una sceneggiatura; ma come costruire un racconto per immagini.
A New York ho vissuto per due anni. E lì ho avuto la possibilità
d vedere una serie di film che qui si proiettano difficilmente in
un cinema: tutta la Nouvelle Vague, il nuovo cinema tedesco, il
neorealismo, tutto Antonioni. All’epoca lì c’erano
due sale che davano quotidianamente ognuna due classici della storia
del cinema. Quando sono tornato in Italia, ho cominciato a lavorare
come traduttore dialoghista (traducevo telefilmacci americani).
Ho avuto l’enorme fortuna di incontrare una serie di persone
che avevano voglia di buttarsi in avventure un po’ strane.
E abbiamo cominciato a girare film senza una lira, d notte, in 16
mm. In Paesaggio con figure la storia era un pretesto per
mostrare delle immagini.
De Vincenti: Quando è che nasce l’immagine
dei tuoi film? Si ha la sensazione che tu arrivi sul set con un’immagine
già formata nella tua mente...
Soldini: Credo che le immagini del film nascano
insieme all’idea del film. Quando però la fase della
scrittura dura molto tempo, le immagini iniziali si possono anche
perdere. Per Le acrobate credo che qualcosa sia nato da una
fotografia che avevo visto cinque anni fa su una rivista: era in
bianco e nero e raffigurava una donna seduta su una valigia, all’interno
di una stazione. Quando si trova un centro di questo tipo, poi lo
si comincia a ricamare, e a poco a poco tutte le tue riflessioni,
le tue sensazioni vanno a stringersi intorno a quel centro.
Cosulich: Altre volte hai avuto stimoli diretti
dalla realtà e non dalla realtà riprodotta?
Soldini: Per me è molto importante vedere
delle immagini riprodotte, non solo delle immagini reali. Credo
che le immagini fotografiche o pittoriche siano un grosso insegnamento
su come guardare la realtà. Ma se io facessi un chilometro
a piedi, potrei trovare anche quindici spunti, non per storie, ma
per quindici immagini diverse.
Villa: Nella stesura iniziale era già
prevista la composizione della struttura intera del film (le cesure
di montaggio, i ritmi dei diversi momenti del racconto, ecc.)? Comunque:
c’era un disegno globale molto definito prima della lavorazione
del film?
Soldini: E’ chiaro che un disegno globale
del film esiste. Ma L’aria serena dell’ovest,
ad esempio, è un film più lavorato a livello di story-board
che non Le acrobate. Nel primo film, quando arrivavo la mattina
sul set, sapevo abbastanza precisamente come dovevo girare la scena.
Invece adesso mi succede di arrivare impreparato, non perché
lo voglia, perché mi capita sempre più spesso di non
saper prendere decisioni in anticipo. Mi aiuta provare con gli attori.
In quel momento si cerca di capire insieme come potrebbe svolgersi
la scena.
Medici: Prima dicevi che la storia di Paesaggio
con figure era un pretesto per raccontare delle immagini, che
è un po’ la posizione di Wenders nella prima fase della
sua opera. Come si evolve poi, nei tuoi film, il rapporto tra immagine
e storia? A me sembra che, soprattutto a partire dall’Aria
serena dell’ovest, tu recuperi la narrazione. C’è
un tema in comune fra te e Wenders, e cioè il viaggio, che
spesso rappresenta una fuga, un sottrarsi a una realtà che
non ci piace. Nelle Acrobate tutta la seconda parte è
un viaggio che è simile a una fuga adolescenziale, a una
sorta di regressione. Le protagoniste lasciano la loro dimensione
quotidiana senza dire niente a nessuno, proprio come si fa in una
certa età della vita quando si ha bisogno di avventure personali.
Rimanda all’adolescenza anche il loro bisogno di purezza,
che si manifesta nelle scene in cui si lavano il viso, o nel finale
sulla neve. Un’ultima domanda: le strutture narrative dei
tuoi film si basano sulla microstoria, sull’evento che accade
all’individuo in quanto tale. Non ti sembra un limite, che
ti impedisce di darci una rappresentazione più problematica,
articolata, delle contraddizioni che viviamo in quanto uomini della
società occidentale? Tu ti riconosci nella definizione di
realismo minimalista?
Soldini: Sì, Paesaggio con figure
era un pretesto per raccontare delle immagini. Ma da allora credo
che le storie abbiano smesso di essere pretesti. Però comunque
ho come l’esigenza di raccontare delle immagini, oltre a raccontare
per immagini. Mi rendo conto che alla fine di una giornata di lavoro
sono contento quando almeno una delle inquadrature che ho girato
racconta qualcosa di profondo già di suo, non perché
in un primo piano un personaggio pronuncia una certa battuta.
Per quanto riguarda quello che dicevi sul viaggio, posso dirti che
per me è molto difficile parlare delle cose che racconto
nei film, perché probabilmente hanno molto a che fare con
l’inconscio. Non credo che il viaggio delle Acrobate
sia adolescenziale. Il viaggio fa sviluppare il rapporto tra i personaggi.
C’è molta differenza nelle relazioni fra loro tra l’incontro
alla stazione di Treviso e il finale del film. In Un’anima
divisa in due c’era un viaggio, ma non c’era questo
tipo di racconto, anche se progressivamente i due protagonisti si
conoscevano di più: Piero scopriva chi era la donna che amava,
che cosa vuol dire essere una zingara.
Poi, è vero, nelle Acrobate c’è questo
bisogno di purezza. La neve sulla montagna significa un po’
lavarsi di tutto quanto, alzarsi sopra il mondo, guardare tutto
dall’alto e arrivare a un silenzio che sia davvero silenzio.
Prendere tempo per se stessi, questo credo sia importante, avere
il coraggio di mollare tutto per un po’.
Per quanto riguarda il minimalismo non la vedo una cosa negativa.
Mi vengono in mente autori come Carver capaci di raccontare emozioni
molto intense in piccole storie. Non parto con l’intenzione
di fare questo tipo di cinema, cerco di mettere in scena casi che
superino un po’ i limiti della quotidianità. Eppure
gli spettatori li vivono come fatti molto normali, quotidiani. Forse
dipende dal mio modo di raccontare.
De Vincenti: Anche per me è sensibilissima
la differenza che c’è tra il viaggio di Un’anima
divisa in due e il viaggio delle Acrobate. E’ come
se tu nelle Acrobate ti facessi forte della scoperta di un
tempo del set, come tempo diverso da quello della narrazione...
Soldini: Qualche tempo fa ho letto su un libro
(forse un’intervista di Wenders a Godard) che la fase delle
riprese è quella più angosciosa; mentre la fase del
montaggio è quella più creativa. Per me è l’opposto:
il montaggio è il momento più straziante, in cui ti
accorgi che le cose non funzionano come pensavi e devi trovare un
altro modo per farle funzionare. Invece le riprese sono il momento
più gioioso.
Cosulich: A me interessa sapere come hai scelto
le attrici delle Acrobate, Licia Maglietta e Valeria Golino,
che provengono da scuole diverse. In particolare, come è
nata l’idea di usare la Maglietta in una parte così
anomala per lei?
Soldini: Sicuramente non mi ha spinto nessuno
né per l’una né per l’altra. Cerco sempre
di trovare un attore che sia il più vicino possibile al personaggio
che ho immaginato. Forse scatta semplicemente la voglia di lavorare
con una persona, piuttosto che con un’altra. Io faccio molti
provini, in cui cerco di inventare cose diverse dai soliti provini
in cui si parla del più e del meno per nascondere l’imbarazzo.
Aspetto il momento in cui scocca dentro di me il desiderio di lavorare
proprio insieme a quella persona.
Cercone: Il sentimento del malessere ricorre
nel tuo cinema. Quali sono, per te, le ragioni del malessere dei
tuoi personaggi? In particolare, perché le protagoniste
delle Acrobate piangono silenziosamente? Un’altra domanda:
ritieni che nella ideologia del tuo film si ritrovino tracce di
misticismo?
Soldini: E’ il malessere che possono provare
molte persone che non stanno bene. Nei miei film, lo descrivo come
un dato di fatto, non voglio approfondirlo. Ad ogni modo esiste,
e le protagoniste delle Acrobate cercano di trovare delle
soluzioni. Sono tutte e due alla ricerca di qualcosa. Elena all’inizio
del film cerca casa, ma non ne ha bisogno perché già
la possiede. Anche Maria tende verso qualcosa d’altro rispetto
al suo mondo. Non se questo è misticismo. Sicuramente il
personaggio di Anita, la vecchia, porta qualcosa di magico nella
storia, che riguarda le tradizioni, gli usi, i costumi, un tipo
di religiosità che oggi non esiste più. Doveva essere
un personaggio che avesse un respiro diverso da tutti gli altri.
Zagarrio: A me interessa capire il tuo rapporto
con la produzione. Tu metti in moto, immagino, una macchina abbastanza
leggera. Questa macchina come influisce sul tuo modo di raccontare?
Soldini: Io ho una società con cui ho
prodotto, insieme ad uno svizzero, L’aria serena dell’ovest.
Nel caso di Un’anima divisa in due e Le acrobate
è stata la mia società che ha curato la produzione
esecutiva. Questo vuol dire che per i soldi, materialmente investiti
sono passati tutti attraverso la mia società. Ora, se uno
sa che ci sono due miliardi reali per girare un film, sa che in
ogni caso non può spendere più di due miliardi. Di
conseguenza, sul set, si prendono una serie di decisioni, come dare
più peso ai costumi anziché alle scene. Con un altro
tipo di produzione, quando il regista non sa con precisione quanto
sia il budget, si può scatenare una battaglia continua tra
regista e produttore.
Villa: Ho notato nei tuoi film una forte attenzione
non solo alle immagini ma anche al suono. Mi sembra che lavori sempre
con lo stesso compositore. Come organizzi il lavoro sul sonoro?
Soldini: Fin dall’inizio ho girato in presa
diretta. Dopo i corsi che ho fatto a New York, ho capito che il
suono andava considerato quanto la fotografia. Se tu vedi i film
americani, soprattutto quelli non doppiati, ti accorgi che l’importanza
del suono è enorme. In America dietro il sonoro c’è
un lavoro così accurato che in Italia possiamo sognarcelo.
Da noi pensiamo che l’accuratezza del suono riguardi soltanto
il cinema d’autore. Nel cinema americano, riguarda qualsiasi
film di qualsiasi budget. Io non ho mai rinunciato a girare in presa
diretta, anche se le macchine di ripresa non erano molto silenziose.
Il suono in presa diretta è molto importante per dare verità
a quello che vedi. Come spettatore, se assisto a una scena in cui
un signore entra in una stanza e si siede, e sento gli stessi suoni
della mie esperienza di vita, provo un senso di verità maggiore.
E’ il suono globale di un film a formare la sua musica.
Cosulich: In questi ultimi tempi il cinema europeo
mi ha riconciliato con il sonoro, perché il cinema americano,
ormai è un’industria in mano ai discografici. Sembra
di essere tornati ai tempi del muto: è come se ci fosse un
pianista che copre l’intero metraggio del film con una musica
che non ha nessun senso, serve solo a fare dei compact. Io credo
che una delle battaglie da fare sia riconquistare il sonoro, perché
si sta completamente perdendo. Vorrei chiedere a Soldini se tutto
questo non lo sente come un pericolo, visto il suo interesse per
la presa diretta.
Soldini: Sì, sono d’accordo. Nell’Aria
serena dell’ovest su cento minuti di film, ce ne sono
cinque di musica, e all’inizio non avrei voluto usarla per
niente. Nelle Acrobate, che è il film dove ho impiegato
di più la musica, se si arriva ad un quarto d’ora è
tanto.
De Vincenti: Qual è il tuo rapporto con
Giovanni Venosta, che compone le musiche dei tuoi film?
Soldini: Per Un’anima divisa in due
è stato in un certo senso più semplice. C’era
un personaggio rom, quindi qualcosa della cultura musicale rom doveva
far parte del film. Poi volevo che la musica si sviluppasse, come
un racconto, in tre fasi. All’inizio e alla fine, infatti,
ci sono due musiche imparentate, ma diverse. Per Le Acrobate
non volevo che la musica sottolineasse i momenti drammatici, rendendoli
ancora più drammatici. Ho chiesto a Venosta di lavorare su
una musica che dicesse a noi spettatori: “questo è
solo un incidente del percorso, accadranno altre cose, anche se
non sappiamo ancora quali”. La musica doveva avere qualcosa
di magico, somigliare al personaggio di Anita.
Argentieri: Che opinione si è fatta del
cinema italiano? Lei si sente parte di un discorso comune? C’è
la sensazione che il cinema italiano non abbia fili conduttori,
che sia un insieme di monadi.
Soldini: Io non vedo, in effetti, molti collegamenti,
anche se posso sentirmi più vicino a Martone nel modo di
lavorare piuttosto che ad altri. A me piacerebbe che ci fosse una
reale capacità di discussione sui propri lavori, come è
stato in altre epoche. Ma oggi non c’è.
Argentieri: Adesso si parla di un cinema con
delle forti radici regionali, un cinema toscano, un cinema napoletano,
un cinema del nord. Tutto questo però non deve essere visto
in termini di realtà produttiva, perché questa fa
sempre capo a Roma. Una volta i registi erano degli emigranti: venivano
da Milano, da Bologna, da Parma, da Napoli, si trapiantavano a Roma,
e non facevano avvertire il peso delle loro città di provenienza.
Milano, per lei, che cosa ha significato nella sua formazione di
cineasta?
Soldini: Credo che la città di Milano,
come paesaggio, sia stata molto importante per le storie che ho
raccontato fino ad Un’anima divisa in due. Quel tipo
di storie, di personaggi, di scenari, sono potuti esistere perché
sono nato e cresciuto a Milano. Essere stato due anni a New York,
mi ha dato la possibilità di avere uno sguardo un pochino
più esterno sull’ambiente che andavo a raccontare.
Fa sempre bene allontanarsi per qualche tempo, uno sguardo più
fermo è sempre più tagliente. Se fossi stato costretto
a stabilirmi a Roma avrei perso un po’ di libertà.
Io ho sempre avuto la possibilità di seguire un percorso
mio personale. Oggi c’è più disponibilità
da parte dei produttori a lasciare libertà ai registi.
De Vincenti: Forse c’è stato un
momento, ma adesso ho l’impressione che abbiano richiuso le
maglie.
Soldini: Ricordo che per L’aria serena
dell’ovest sono venuto a Roma per parlare con dei produttori,
quando la sceneggiatura era ancora soltanto un racconto. Il primo
produttore non ha voluto nemmeno sapere cosa avessi fatto prima,
quando avevo già girato tre cortometraggi e due documentari.
Questo mi sembrò strano. Io se fossi un produttore mi informerei,
leggerei le sceneggiature dei giovani registi. Oggi c’è
una curiosità verso le novità che allora non c’era.
De Vincenti: Qual è l’andamento
economico dei tuoi film?
Soldini: Più o meno sempre in pari. Nel
peggiore dei casi un pochino in perdita. Certo, nessuno dei miei
film ha avuto un successo economico tale da farne un caso. Sono
riusciti a farsi vedere da un piccolo pubblico. Mi è dispiaciuto
molto che Le acrobate si sia fermato sotto a un miliardo
di incasso. Però non si capisce mai bene fino a che punto
è “colpa” del film. Dipende anche dal momento
in cui è distribuito, quanto ha puntato su quel titolo il
distributore. Le acrobate è uscito insieme ad altri
cinque film italiani, e questo ovviamente è deleterio.
L'incontro, organizzato dalla Biblioteca del Cinema "Umberto
Barbaro" e dalla rivista Cinemasessanta, si è tenuto
presso la libreria Bibli nel dicembre 1997.
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