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Incontro con Giancarlo Sepe
(da: Cinesemassanta, n.5/6,
settembre/dicembre 2002)
Gianfranco Cercone: Benvenuti all'ultimo
degli incontri con gli autori dell'anno, di questo ciclo del
2002. Finora erano stati nostri ospiti soltanto registi cinematografici.
Oggi, per la prima volta, converseremo con un regista teatrale,
Giancarlo Sepe, che ringraziamo davvero di aver accettato il
nostro invito.
Chiunque si sia avvicinato, anche solo occasionalmente,
agli spettacoli di Sepe, avrà avvertito come essi intrattengano
con il cinema un'intima relazione. Non soltanto perché il
cinema ne è stato a volte il tema - cito, a titolo di
esempio, Vienna, dedicato al divismo, e il più recente Cine
H, una ricognizione nella psiche degli spettatori cinematografici.
Ma soprattutto perché il gusto visivo che li impronta
dimostra una profonda assimilazione dell'immaginario cinematografico.
Nel lavoro che fornisce l'occasione di questo nostro incontro - e cioè Favole
di Oscar Wilde che si replica da due anni al Teatro La Comunità di
Roma - il cinema è presente in varie forme. Le finestre che si aprono
sulle pareti che circondano la platea, attraverso le quali osserviamo l'azione,
ritagliano piani americani o dettagli; in un caso, è ricostruita un'inquadratura
angolata dall'alto.
Vorrei riferirmi però al momento forse più sorprendente dello
spettacolo, quello in cui la platea prende a ruotare. E' risaputo come il cinema
inneschi nello spettatore un meccanismo psicologico di proiezione all'interno
di un film; se questo cattura davvero la nostra attenzione, c'è un momento
in cui, per così dire, "il principio di realtà", quello
che ci tiene ancorati alla terraferma, inizia a vacillare, e ci immergiamo
nell'esperienza semi-allucinatoria del film. Ecco: la platea improvvisamente
mobile di Sepe, che ci fa visitare l'universo immaginario circostante, rende
a mio avviso con efficacia questo momento della visione cinematografica.
Ma per una presentazione complessiva del lavoro di Sepe, do la parola ad Aggeo
Savioli, come tutti sapete critico teatrale del giornale L'Unità,
ma prima ancora critico cinematografico.
Aggeo Savioli: Le parole che sono state dette mi sembrano
pertinenti, perché c'è spesso un sentore di cinema
negli spettacoli di Sepe, a cominciare dai titoli: penso allo
spettacolo Lumière cinematographique, o Itala
Film Torino. Il suo è un teatro che tiene conto
del cinema (come delle arti figurative in genere), in un periodo
in cui qualsiasi tensione polemica che può esserci stata
tra questi due fratelli rivali è svanita, trovandosi
entrambi a difendere la loro autonomia dalla televisione, che
fa cattivo cinema e che ignora completamente il teatro.
Io, che ho seguito il teatro di Sepe fin dagli inizi, negli anni '60, ricordo
vivamente alcuni suoi spettacoli, anche con emozione. Per esempio, fra gli
altri, un'edizione bellissima di Così è (se vi pare),
un testo di Pirandello molto frequentato a partire dal dopoguerra, anche
da compagnie prestigiose. La messa in scena di Sepe mi è sembrata
la migliore che io abbia mai visto, per certi percorsi critici che scopriva
all'interno del testo. Penso ad esempio alla caratterizzazione del personaggio
di Laudisi, tradizionalmente considerato coscienza critica del salotto borghese;
e che, invece, nello spettacolo di Sepe, partecipava della meschinità e
della disperazione degli altri interlocutori, nei quali Pirandello rifletteva
lo sfascio della società italiana dopo la prima guerra mondiale.
Tale capacità critica, unita alla creatività, è tra gli
aspetti più notevoli del teatro di Sepe. E' interessante il recupero
nel suo ultimo spettacolo (Favole, n.d.t.) di uno scrittore come Oscar
Wilde, considerato in genere soltanto 'spiritoso' e 'conversevole', non a caso
ricordato soprattutto per commedie come L'importanza di chiamarsi Ernesto,
e poco altro. E che è invece uno scrittore importante.
Sepe, originario di Caserta, appartiene a quella ondata di teatro napoletano
definito sommariamente "dopo Eduardo", che ha prodotto scrittori
e registi notevoli che hanno agito a Roma e in Italia. "Napoletanità" che
si è inserita di prepotenza in quella che è stata definita l'avanguardia
romana, negli anni '60, '70 e oltre. Credo che il suo lavoro sia la dimostrazione
che a tutt'oggi c'è spazio ancora per un teatro sperimentale e di ricerca,
un po' ai margini del mercato. Sarebbe necessario un sostegno del governo,
dell'assessorato competente per assicurare una crescita a spazi come il Teatro
La Comunità, dove opera Sepe, così come ad altre sale romane
di Trastevere o di Testaccio.
Detto questo, vorrei spendere due parole sulla situazione del teatro in Italia.
Lamento una disattenzione cronica da parte della stampa e dell'informazione
nei confronti del teatro. Questo perché i maggiori quotidiani, per
non parlare dei settimanali, non danno spazio alla critica teatrale, nemmeno
quando si occupa degli spettacoli nelle grandi sale (e quindi figuriamoci
nelle sale più piccole!) e hanno deciso che il settore spettacoli
deve essere dedicato principalmente alla televisione. Si tratta di una specie
di contagio verso un medium che è spesso infrequentabile, e che non
si occupa di cultura. Non vedo soluzioni, è una situazione frustrante,
ma non c'è interesse a modificarla.
Giancarlo Sepe: E' vero che una responsabilità grossa
ce l'hanno i direttori dei giornali che hanno deciso di dedicare
il 70% di spazio alla televisione, il 15% al cinema, il 3%
alla musica e il 2% al teatro. Questa è una vergogna,
della quale però sono responsabili anche i critici teatrali.
Si leggono presentazioni di spettacoli - gli avvenimenti tutelati
dai "numi" - che possono essere equivocate come recensioni:
perché il dispendio di spazio o di foto, fa pensare
che uno spettacolo di Ronconi piuttosto che di Martone, sia
già bello prima che vada in scena.
Aggeo Savioli: Non è il mio caso, però.
Giancarlo Sepe: Lo so, ma devo generalizzare.
Io che ho mantenuto il più vecchio spazio della sperimentazione a Roma,
visto che La Comunità festeggia i trentadue anni di attività,
ho sentito, da un certo momento in poi, un distacco tremendo dei critici, al
punto da chiedermi se mi conveniva andare avanti. Si fa uno sforzo creativo
e poi si vede che nessuno ti ascolta. Favole andò in scena l'anno
scorso, e per i primi tre mesi di repliche, abbiamo avuto solo due recensioni,
di critici "minori", sorpresi di vedere uno spettacolo emozionante.
Grazie al passaparola, le critiche sono via via aumentate, ma la responsabilità dei
giornali è bieca. Io sono un uomo di sinistra, ma la sinistra ha una
colpa lancinante in tutto questo. E' più "padrina" lei, che
non i "padrini". Ci sono dei potentati che limitano la nostra attività.
Va detto però che l'Assessorato alla Cultura del Comune di Roma, il
buon Gianni Borgna, ha creduto nel mio spettacolo su Wilde e mi ha aiutato
a realizzarlo.
Una spettatrice: Ho visto Favole di Oscar Wilde
al teatro La Comunità e in un panorama deserto come
quello teatrale a Roma si fa notare per la sua originalità e
per la sua forza. Credo che dovrebbe andare in tournée
all'estero. Ad esempio, sono certa che avrebbe un ottimo successo
al festival di Avignone, dove sono stata questa estate.
Giancarlo Sepe: E' incredibile in effetti che non ci
sia la possibilità per una compagnia come quella di Favole di
andare a recitare all'estero. Questo perché c'è una "mafia",
un vero e proprio patronato, che discrimina tra chi deve essere
portato all'estero e chi no. A Roma sono venuti a vederci spettatori
francesi, americani, inglesi, giapponesi, sono rimasti estasiati
e hanno detto: "Se questo spettacolo andasse in scena
nei nostri paesi, farebbe il pieno per mesi e mesi".
Aggeo parlava delle grandi sale, come il Quirino o l'Eliseo. Questi teatri,
in realtà, si ripetono. L'amore per il teatro, è stato sostituito
dal mestiere. Manca la volontà di spiazzarsi, di rimettersi in discussione.
Il Cosi è (se vi pare), andato in scena nell'82, con Lilla
Brignone e Gianni Agus non era ambientato, come d'abitudine, in un salotto,
ma su delle scale condominiali. Mi ricordo che Lilla, attrice somma del teatro
borghese, appena vide la scenografia, si lamentò perché non
aveva a disposizione nemmeno un divano. Poi fu un successo enorme, andò in
scena per due anni di seguito, e fu l'ultimo della Brignone.
In quel periodo ci si lamentava dei tanti Pirandello che affollavano i cartelloni.
Ma per me, era un discorso sbagliato. Perché lo spettacolo nasce nel
momento della messa in scena, e i "Pirandelli" sono tanti quanti
sono i modi di leggerlo.
Io che ho trentacinque anni di attività, potrei permettermi di lavorare
soltanto con i grandi divi. Ma non voglio abbandonare uno spazio come La Comunità che
ancora mi consente una sperimentazione sul linguaggio teatrale, che poi posso
riversare nei teatri maggiori, come ho tentato di fare recentemente, ad esempio,
con la Madame Bovary e la Carmen, intepretate da Monica Guerritore.
La ricerca per me è un bisogno, non suffragato dai critici importantissimi.
Gianfranco Cercone: Il rinnovamento del linguaggio teatrale,
che in effetti i suoi spettacoli propongono, si realizza anche
assimilando e metabolizzando il linguaggio del cinema. Nelle Favole
di Oscar Wilde, ad esempio, come è entrato questo
immaginario ?
Giancarlo Sepe: Favole ha molto a che fare con
il cinema, come tutto il mio teatro.
Mi ricordo che nel 1953 vidi un film in cinemascope, si trattava della Tunica di
Taurog, nel quale, all'inizio, si vedeva un meraviglioso sipario rosso, che
si apriva su un'arena di gladiatori. (E' un momento che rievoca anche Martin
Scorsese, nei suoi ricordi). Lì ho capito tutto, ho capito che il teatro
era un parente stretto del cinema. E un parente "ricco": perché si
avvale della presenza viva dell'attore sulla scena, e dunque può suscitare
emozioni più forti.
Mi dicevo allora (avevo quindici anni): "Il giorno che farò cadere
un attore al rallentatore in scena sarò felice". Ancora non ci
sono riuscito, ma ce la metterò tutta.
Tornando a Favole: ha presente la sensazione di quando si monta su una
macchina al posto del passeggero e si osserva dal finestrino? Si succedono
e si affastellano situazioni come in un piano sequenza interminabile; si vedono
portoni, negozi, persone che passano, che si fermano al bar, che si incontrano:
una scena senza fine. Ebbene, così ho immaginato Favole. Ho seguito
lo stesso procedimento, sostituendo però alle cose e alle persone, gli
umori, i sentimenti, le sensazioni che si conservano dentro di sé senza
il coraggio di esprimerle, perché mettono a nudo una debolezza.
Non intendevo raccontare pedissequamente le favole di Wilde, ma ritrovare le
motivazioni intime dell'autore nell'atto di scriverle.
Io parto dalla considerazione che gli sguardi, i movimenti, la gestualità,
più della parola, sono sintomatici di un sentimento; e che l'azione
teatrale, unita alla musica, che è un elemento essenziale nei miei spettacoli,
sia il mezzo che più narra al pubblico di qualsiasi età.
Ecco perché le mie scene sono nere, perché cerco di inquadrare
nello spazio il dettaglio di una mano, il primo piano di un viso, un andamento
delle gambe: frammentare l'azione mi consente di renderla più suggestiva.
E' questa attenzione al particolare, che rende cinematografici i miei spettacoli.
Il teatro vive di una valenza cinetica, e non statica. Può morire se
si pensa che possa reggersi soltanto sulla parola.
Ricordo che quando diressi Franco Branciaroli nella famosa tragedia scozzese,
che non cito perché porta sfortuna, lui mi chiedeva sempre: "Non
farmi muovere, perché quando mi muovo mi sento perso". Difatti
fu soprannominato: "Divanò de Bergerac", perché voleva
stare eternamente seduto, ma vestito con tanto d'armatura e di spada, era ridicolo
che si appoggiasse sempre, ora ad una colonna, ora su una sedia.
Anche il grande Gassmann aveva problemi a muoversi.
Eppure il teatro è movimento, azione, immagine; quando questi elementi
si immettono nei testi, nascono strane combinazioni che rivalutano e rigenerano
il testo, rendendolo tridimensionale. Al teatro è necessaria l'emotività,
come quella che spendeva il grande Puccini, che componendo le musiche della Turandot si
fermava per piangere, commosso dalle proprie stesse melodie.
La musica è da sempre mia socia creativa. E' il linguaggio più diretto
all'emozione e alla sensibilità del pubblico. La musica ha una sua drammaturgia,
tesse l'azione, contiene carrelli, primi piani. E' un copione parallelo a quello
teatrale, e lo vivifica.
Una spettatrice: Da amante del cinema, come
mai non si è mai dedicato alla regia cinematografica?
Giancarlo Sepe: Ho presentato, una sola volta in vita
mia, una sceneggiatura alla commissione ministeriale di allora,
composta tutta di valenti "schierati", dalla quale
mi fu risposto che il mio film non poteva essere realizzato,
perché il linguaggio era "gotico". Premetto
che il film era ambientato nell'800 e viveva di una tessitura
legata ad un ambiente molto criptico, una villa isolata. Ricevetti,
insomma, una specie di sgridata, come se mi avessero detto: "Non
si scrivono così le sceneggiature!". Comunque adesso
sto preparando un film con Monica Guerritore, che girerò tra
la primavera e l'estate e si chiamerà Pazza per la
musica. E' il titolo di un film con Deanna Durbin, ma non
si tratta di un remake. L'ho ripreso perchè dà un'idea
di sintomatologia clinica dell'amore per la musica. Come dire:
se ascolto Rossini mi sento in un crescendo, se ascolto Mahler
mi sento morire. Studio da sempre quest'antropologia della
musica, come questa riesca modificare i nostri umori.
Gianfranco Cercone: Favole nasceva nel contesto
di un "Progetto Wilde", che si è poi esaurito
con questo solo spettacolo. Ma perché Wilde?
Giancarlo Sepe: Sono partito da una considerazione di
carattere polemico, prendendo spunto dal fatto che nel 2000
Wilde è stato ammesso nell'abbazia di Westminster, dove è stata
dedicata una vetrata a suo nome. Calcolando che lui è morto
nel 1900, ci hanno messo un secolo a riabilitarlo. Complimenti!
Aggeo Savioli: Ci hanno messo molti anni ad abolire
il reato di omosessualità in Inghilterra.
Giancarlo Sepe: E' stato abolito nel 1956.
Aggeo Savioli: Ci è voluto parecchio, non ti
pare?
Giancarlo Sepe: Ma non è finita. Perché nei paesi comunisti
- a Cuba, per esempio (avete visto il film Prima che sia notte?) - quel
reato è ancora in vigore. Sull'euforia per Castro e Che Guevara, andrei
cauto. Se leggete Che Guevara, scoprite che era un omofobo. Io non posso sposare
queste cause di retroguardia. Non posso tollerare l'idea che un uomo venga
discriminato per le sue scelte sessuali.
Ma potrei anche sottacere dell'uomo Wilde. Basti leggere le sue favole: sono
fra le più belle che siano mai state scritte. Altro che Perrault o Christian
Andersen. Le favole di Wilde toccano il cuore. Quella dell'usignolo che si
perfora il petto con un rovo, è una delle cose più strazianti
che io abbia letto in vita mia.
Poi era un provocatore nato, pensate che faceva dei seminari di economia domestica
in America per parlare di vasi di marmellata. Ha avuto il solo difetto di credersi
onnipotente, perché glielo hanno fatto credere. E poi, la società uccide
le persone che creano.
Uno spettatore: Quali film che ha visto recentemente,
l'hanno colpita al cinema?
Giancarlo Sepe: In the mood for love (di Wong
Kar Wai, n.d.t.) è un grandissimo film, girato con due
soli attori e costato diciotto mesi di lavorazione.
E' grande perché riesce a sposare la musica (straordinaria) e il movimento
di macchina, ad abbinare il ritmo della ripresa cinematografica a quello della
partitura sonora.
Mi piace anche il cinema americano. Recentemente, ho sentito in televisione
una presentazione di Enrico Ghezzi che parlava del film Il terrore corre
sul filo di Anatole Litvak, un film particolare e bellissimo, fatto prima,
diceva lui, che il cinema americano fosse intorpidito dallo sguardo manierista.
Io su questo non sono d'accordo, non si può pensare che il cinema americano
si sia fermato a Fronte del Porto; c'è anche Magnolia, American
Beauty. La trovo una posizione conservatrice. Come dire: noi europei siamo
magnifici, gli altri sono stupidi e un po' creduloni. Io quando vedo un film
italiano, mi accorgo subito se è brutto o no; per un film americano
impiego mezz'ora. E' un cinema che ha una tecnica formidabile, che rappresenta
un mondo diverso dal nostro. Per parlare di noi, riprendiamo la Garbatella
in motoretta. Gli americani ci fanno vedere le loro ville, ma quella non è un'interpretazione
visionaria del loro mondo: è il loro mondo, il loro realismo. Loro,
appena possono, si costruiscono una villetta, con un'ombra di piscina. American
Beauty, prima che lezioso e retorico, è un film che va visto. Ghezzi
al contrario si ferma spesso ai classici degli anni '50. Ma va ricordato che,
in quel periodo, autori come Hitchcock erano considerati registi di genere
e venivano svalutati dalla critica ufficiale. Furono i critici francesi, i
cosiddetti 'giovani turchi' - Truffaut, Godard, Chabrol, Rohmer - che li elevarono
alla stregua del cinema di 'serie A'.
John Ford poi per me è il più grande autore cinematografico,
insieme a Fellini. E costituisce un'altra vergogna dell'intelligenza critica
italiana, che negli anni '60 lo accusò di essere reazionario e fascista
per come trattava i pellerossa.
Aggeo Savioli: Non mi risulta.
Giancarlo Sepe: Leggetevi bene i testi. Un uomo tranquillo,
Come era verde la mia valle, Il traditore sono capolavori
assoluti.
Aggeo Savioli: Di questi, l'unico bello per me è Il
traditore.
Giancarlo Sepe: Basti pensare all'inizio di Sentieri
selvaggi: dall'interno di una casa di legno, Ford segue
il personaggio femminile che si affaccia e scopre la Monument
Valley. Questa casina con le ceramiche bianche e azzurre, con
la tavola imbandita, al centro del mondo più selvaggio
e più impervio che si possa immaginare, rivela, come
scrive Anderson, un gusto cechoviano dell'immagine. Ritrovo
in lui l'anima irlandese, che io amo. Anche perché gli
irlandesi, come me, amano la musica. Lì ogni episodio
della giornata ha il suo canto: il risveglio, il compleanno,
il Natale, la primavera; momenti che Ford, soprattutto nell'Uomo
tranquillo, narra in maniera esemplare.
Mi piacciono molto gli scrittori irlandesi: Oscar Wilde, Bernard Shaw, Joyce,
Yeats, Samuel Becket, Allan Poe. Il mio prossimo spettacolo sarà tratto
dai Racconti straordinari di Poe.
Una spettatrice: Degli autori del cinema italiano di
oggi, chi le piace ?
Giancarlo Sepe: Di sicuro Giuseppe Piccioni. Luce
dei miei occhi e Fuori dal mondo, sono due film
meravigliosi, frutto di una grande sensibilità musicale.
(L'autore delle musiche, strepitose, è Ludovico Einaudi).
Dico questo pur non amando né Silvio Orlando né Margherita
Buy. In Italia siamo così poveri di attori che ai pochi
che ci sono, fanno credere di essere eclettici facendoli passare
attraverso i ruoli più improbabili.
Uno spettatore: Lei sopporta di vedere film in televisione?
Giancarlo Sepe: Monicelli una volta ha detto: "Basta
con questa storia, che non si può vedere il cinema in
televisione!". La televisione è uno schermo, come è uno
schermo quello del cinema.
Aggeo Savioli: Non sono assolutamente d'accordo.
Giancarlo Sepe: Io non amo più la sala cinematografica.
Detesto essere disturbato durante la visione del film. Per
esempio, quelli che scartano le caramelline per un quarto d'ora,
io li ammazzerei. E anche quelli che si perdono i titoli di
testa e di coda. Potete capire, insomma, quanto possa soffrire
io in una sala. Forse Monicelli, nel suo toscano sarcasmo e
cinismo ha detto una corbelleria. Sta di fatto, che da qualche
tempo, non metto più piede in un cinema. Mi compro le
mie cassette, o i miei DVD, di cui sono collezionista, e me
li proietto a casa mia. E' anche vero però che mi sono
comprato uno schermo grande quasi quanto quello di un cinema
.
Trascrizione e sintesi
Federico Circi
(L'incontro si è svolto presso la libreria Bibli di
Roma, il 21 dicembre 2002)
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