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Incontro con Pasquale Scimeca
(da: Cinemasessanta, n.3, marzo/aprile
2001)
Vito Zagarrio: Pasquale Scimeca, siciliano,
studia a Firenze dove hanno origine i suoi primi progetti produttivi.
Autore importante nel panorama del cinema italiano è portatore
di un preciso progetto politico, ideologico, etico e formale.
Esordisce alla fine degli anni Ottanta con La donzelletta,
cui seguono Un sogno perso (1992), Il giorno di San
Sebastiano (1993), I briganti di Zabut e, in ultimo, Placido
Rizzotto, presentato quest'anno al festival di Venezia. Un
cinema, quello di Scimeca, che si è fatto più forte
di film in film, rivelando la maturità di un progetto
coerente e la validità di una cifra stilistica precisa.
Dalla Sicilia, dalle sue radici ancestrali, dalla memoria degli
avi, un cinema che racconta la Storia grande e quella piccola
dei piccoli della terra. Un cinema in cui la solida progettualità etica è coerenza
espressiva, rivelata anche nelle modalità produttive,
nel rifiuto delle garanzie televisive, quando esse siano prefigurate
e preordinate, quando esse potrebbero nuocere al rigore di un
preciso progetto ideologico e formale. Un cinema di impegno civile,
dunque, ma non solo. Non basta parlare di militanza e di impegno;
a questi termini deve affiancarsi la proposta di un progetto
formale, quello stesso che in Placido Rizzotto viene fuori
con evidenza. Un progetto ricco, complesso e diversificato. Mi
riferisco,alla presenza determinante della tradizione dei cantastorie
siciliani, quella degli Orazio Buttitta, dei Ciccio Busacca ecc.,
o a elementi che, apparentemente, contraddicono il richiamo alla
storia, all'ideologia, alla militanza, alla denuncia, e si esplicano
sul terreno della sessualità, del gender, del femminile-maschile.
Si pensi al tema del "sado-masochismo" che sottilmente
percorre tutto il suo cinema, rilevante ne Il giorno di San
Sebastiano, ma presente pure in Placido Rizzotto -
vedi la scena, particolarmente insistita dello stupro della donna
di Placido; a quello della sessualità, si pensi, ancora,
alle tematiche "psicanalitiche" incentrate sui conflitti
uomo-donna, probabili esplicitazioni di quelli che sono i conflitti
sociali. Il tutto compreso in una sceneggiatura che è ben
lungi dall'avere una struttura "classica": Placido
Rizzotto è nettamente diviso in due parti: la prima, dove
si ricalcano i modi del cantastorie, la seconda dove prevale
una dinamica da detective-story politica. Mi piacerebbe a tal
proposito sentire il suo parere, chiederle da dove nasce in lei
l'idea di fare cinema e qual'è la tua idea di cinema.
Pasquale Scimeca: Per rispondere a queste
domande, partirei dal discorso, appena accennato sulla Storia.
E lo faccio per segnalare un equivoco. In molti pensano che i
miei siano film storici, mentre in realtà non lo sono,
almeno non nel senso tradizionale del termine. Per me la storia è prima
di tutto un problema esistenziale. Il voler raccontare fatti
legati al passato non nasce dall'esigenza e dal desiderio di
raccontare la Storia in sé, ma da un problema mio, esistenziale.
La Storia non mi interessa come recupero della memoria, né come
studio del passato in sé. Mi interessa nel punto in cui
questa incrocia l'esistenza degli uomini e la mia. Quando ho
iniziato a raccontare il mondo contadino siciliano, a interessarmi
della sua Storia, il mio scopo era quello di raccontare un mondo
che stava per scomparire. Sono nato in un piccolo paese totalmente
contadino nell'economia, nelle idee, nell'essere profondo. Un
paese da medioevo, se si escludono due televisori, qualche macchina
e una trebbiatrice. Un mondo che ho lasciato, per necessità,
all'inizio - non c'erano le scuole medie! - e per scelta poi.
Un mondo veramente in via di estinzione. Questa scomparsa mi
riguardava e questa scomparsa ho voluto raccontare. Affrontare
il dramma di Placido Rizzotto mi serviva sì per raccontare
quello che era successo in quegli anni, per dare un messaggio,
ma fondamentalmente per recuperare a me stesso un mondo, o quell'idea
di mondo che nel frattempo andavo perdendo e stavamo perdendo
un po' tutti. A questo discorso si lega quello dell'autore e
della sua poetica. Da questo punto di vista, la mia poetica è mutuata
dal mondo della civiltà contadina e soprattutto dal personaggio
del cantastorie. Fondamentalmente per due elementi: il primo
riguarda lo stile del racconto, che già era in qualche
modo precinematografico. Prima ancora che il cinema fosse inventato,
i cantastorie usavano gli stessi modelli espressivi che saranno
poi propri del cinema, facevano, in sostanza, un "cinema
pre-tecnologico", dove le tavole disegnate, le scene recitate,
l'elemento musicale era importante quanto il cunto, il racconto
in sé; il secondo fa riferimento all'etica, ai contenuti
veicolati da questa forma d'arte, in special modo dopo le innovazioni
apportate alla tradizione da Orazio Buttitta e Ciccio Busacca.
Questi, infatti, alle storie individuali e private aggiungono
la dimensione sociale e civile, danno una dimensione etica a
una struttura narrativa statica e consolidata. La storia di Salvatore
Carnevale, il sindacalista ammazzato, diventa oggetto del racconto,
come l'immigrazione, la necessità di andarsene, la povertà.
Tutto questo è diventato materia fondante della mia poetica,
del mio stile di racconto, del mio cinema.
Argentieri: Come è stato prodotto
Placido Rizzotto?
Pasquale Scimeca: L'ho realizzato con la
cooperativa, Arbash e rispetto ai film realizzati precedentemente è costato
molto di più (circa 3 miliardi e mezzo). Ma il problema
non è quanto sia il costo di un film - Placido Rizzotto
ha avuto comunque un budget limitato - il problema è che
ci sia un rapporto. Che io possa recuperare i soldi spesi. Lo
Stato mi presta dei soldi - con interessi anche alti - ed è giusto
che io glieli dia indietro.
Alessandra Fagioli: E il vostro guadagno?
Pasquale Scimeca: Il "guadagno" della
cooperativa è il lavoro. Siamo una cooperativa di lavoro
e non possiamo avere utili. Il lavoro, però, ce lo paghiamo,
altrimenti non si vivrebbe. È una questione etica, morale:
restituire, nei limiti del possibile, i soldi allo Stato.
Argentieri: Come ha composto il cast
degli attori? Un amalgama riuscito di attori professionisti
e non.
Pasquale Scimeca: All'origine c'è stata
una ricerca puntigliosa. Abbiamo battuto in lungo e largo tutti
i paesini della Sicilia e nel limite del possibile abbiamo fatto
dei provini. La Sicilia ha molti attori perché in quasi
tutti i paesi ci sono piccole compagnie di teatro dialettale,
un teatro che sopravvive e gode ottima salute. Compagnie piccole,
di nobile e lunga tradizione.
Argentieri: In Placido Rizzotto c'è una
perfetta ricostruzione delle atmosfere di quell'epoca. Le luci,
le ombre, i colori della realtà contadina sono restituiti
con notevole precisione. Eppure, lei è giovanissimo.
Pasquale Scimeca: Sono nato qualche anno
più tardi, ma ho vissuto quelle atmosfere. Da noi le lotte
contadine per la terra nei primi anni Sessanta c'erano ancora.
Mi ricordo le riunioni nella Camera di Lavoro, le facce, la distanza,
anche fisica, tra quelli che erano "i capi" e il popolo,
la mancanza di dialogo, la fiducia disperata del popolo. Ricordo
la mancanza di luce e quelle case. Per girare non abbiamo dovuto
ricostruire niente, semplicemente abbiamo aperto case chiuse,
abbandonate per via dell'emigrazione. Case lasciate intatte da
chi sperava di potervi tornare. C'è stato poco da inventare
o reinventare.
Zagarrio: In riferimento alla scena atroce
dello stupro della donna di Rizzotto, mi pare emerga nel film
una riflessione su problematiche legate alla sessualità,
al sadomasochismo, all'umiliazione, riflessione presente pure
ne Il giorno di San Sebastiano.
Pasquale Scimeca: Le scene de Il giorno
di San Sebastiano non sono una mia invenzione, quella è storia
vera. Nei sotterranei del palazzo dei signori, colpevoli della
strage dei contadini, c'era una camera della tortura. Una componente
dell'esercizio del potere - economico, ma anche di pura sopraffazione
individuale - che poi nel film, è vero, diventa metafora.
Uno spettatore: In epoca di revisionismi,
di commissioni Storace e così via, fa piacere sapere
che qualcuno abbia il coraggio di dissentire e mi sembra che
il suo film lo faccia. Le chiedo se ritiene possibile che il
cinema in generale, e nella fattispecie il suo, incida sulla
realtà quotidiana?
Pasquale Scimeca: Incide credo, e molto:
il cinema è una delle poche forme di comunicazione - la
televisione ne è un'altra - capace di sostenere questo
ruolo. Certo, la comunicazione della televisione è più immediata,
più semplice. La tv ha bisogno di pochi mezzi per parlare,
anche se questo spoglia la realtà di ogni elemento poetico.
Il cinema, invece, è più lento, più strutturato,
ma il suo linguaggio è infinitamente più articolato
e complesso, la sua capacità di osservazione, oserei dire,
più acuta e penetrante.
Zagarrio: Ho notato in Placido Rizzotto una
maturazione dal punto di vista della messa in scena. Mentre
trovo il progetto dei suoi film coerente, addirittura testardo,
osservo in quest'ultimo una maggior coscienza registica che,
nei film precedenti - volutamente più scarni ed essenziali
- era meno evidente. L'aver avuto più mezzi a disposizione
ha favorito questa crescita?
Pasquale Scimeca: L'esempio dell'artigiano
mi sembra appropriato. Quando si va in bottega, si impara a fare
una sedia che stia in piedi, che abbia quattro gambe e tenga.
Poi, acquisito il mestiere, la stessa sedia sarà decorata
e personalizzata, sarà solida e funzionale, ma pure bella.
Argentieri: La sua è una regia
che privilegia la sottrazione. In questo elemento scorgo un
contatto col miglior neorealismo, quello di Rossellini e degli
autori che stavano addosso ai fatti, non ricamandoci sopra.
Pasquale Scimeca: Intanto grazie per il
riferimento altissimo, ma mi preme ricordare quanto il cinema
sia opera collettiva. Non so come sarebbe stato Placido Rizzotto
senza la fotografia di Pasquale Veri, giovane autore talentoso
e sensibile.
Uno spettatore: Che idea ha del cinema
italiano contemporaneo?
Pasquale Scimeca: Un problema centrale del
nostro cinema sta nella mancanza di dialogo tra gli autori. Prima
forse c'erano luoghi in cui si discuteva. Oggi ognuno fa la sua
strada, le sue cose, e si va avanti senza scambiarsi niente.
Di persone preparate ce ne sono, ma quello che manca è il
coraggio di andare fino in fondo. Normalmente ci si ferma a metà,
si cercano scorciatoie, accomodamenti. È un problema di
isolamento. Scegliere un direttore della fotografia solo perché ha
un nome o ha vinto dei premi e poi non ha nulla a che fare con
il cinema che si intende fare, è sbagliato. C'è bisogno
di costruire gruppi di persone che condividano la stessa idea
e la stessa sensibilità.
Zagarrio: Un cinema italiano, quello
di oggi, caratterizzato dal "regionalismo" produttivo.
Un cinema cioè legato a luoghi di produzione precisi,
che fanno riferimento a determinate realtà regionali
o cittadine. Ovviamente, non si può non parlare di cinema
siciliano, fatto di gruppi, ma pure di solitudini, di esperienze
marcatamente individuali. Come si ponerispetto a questo cinema?
Esiste poi un modello di cinema siciliano?
Pasquale Scimeca: Non credo che esista un
modello o un gruppo. La novità sta nel fatto che i cineasti
siciliani fanno cinema in Sicilia, mentre una volta la Sicilia
era solo un set e il cinema era "romanocentrico". Non
credo, però, si possa parlare di comunanza di idee e di
sentimenti. È indubbio, però, che il fatto che
ci siano cinematografie "regionali" è un bene,
un elemento di forza e un buon punto di partenza per un cinema
diverso. Tuttavia non parlerei di una nouvelle vague siciliana.
(L' incontro si è tenuuto nel dicembre
2000 presso la liberia Bibli di Roma, nell'ambito dell'iniziativa
promossa dalla Biblioteca Umberto Barbaro "Gli autori
dell'anno").
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