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INCONTRO CON VINCENZO MARRA

Da: CINEMA SESSANTA n° 2 – Marzo/Aprile 2002

Antonio Medici – Vincenzo Marra è un autore molto giovane. In questa occasione parleremo del suo primo film, Tornando a casa, un esordio molto interessante che ha ricevuto numerosi riconoscimenti, a partire dal Festival di Venezia, dove è stato premiato all’interno della Settimana Internazionale della critica. Il film successivamente ha girato molto, raccogliendo diversi premi internazionali, ad Annecy, a Valencia, e in altri festival. Si tratta di un esordio che è stato accolto bene e ha suscitato l’interesse soprattutto della critica. Si può aggiungere che l’uscita del film nelle sale, a quanto mi risulta, ha avuto un buon riscontro, almeno per quel che riguarda le grandi città.
Marra debutta con questo lungometraggio senza avere alle spalle un iter formativo classico, senza aver fatto una scuola di cinema o quei percorsi di apprendistato istituzionali solitamente intrapresi da chi, essendo giovane, vuole esordire nella regìa cinematografica. Prima di Tornando a casa aveva già realizzato due cortometraggi, completamente autoprodotti; aveva anche cominciato a scrivere sceneggiature, e una di queste è stata premiata al Solinas. Contemporaneamente, sempre animato da grande tenacia nel voler fare cinema, aveva cominciato a girare un documentario, presentato poi a Torino, in occasione del festival. Il documentario, intitolato Estranei alla massa, è stato in effetti girato da Marra prima di Tornando a casa; anche quel lavoro ha ricevuto in ambito festivaliero apprezzamenti e segnalazioni, e si parla di una possibile uscita nelle sale, cosa abbastanza rara per un documentario, come raro è raggiungere il lungometraggio da parte di chi fa documentari in Italia. Quindi quello di Marra è un talento che viene riconosciuto e apprezzato.
Il film è per tanti aspetti un film piuttosto anomalo nell’ambito della produzione cinematografica italiana. Innanzitutto per il tema che viene affrontato; si tratta della vita, del lavoro, di alcuni pescatori di Napoli, i quali però con la loro barca si avventurano in Sicilia, molto lontano dal loro luogo d’origine, spingendosi addirittura in acque extraterritoriali, acque africane. A motivarli è l’idea di realizzare una pesca più ricca di quella che si può avere in acque più battute e quindi più sfruttate. I personaggi su questa barca sono quattro, e credo che Marra riesca a raccontarci sia i gesti del lavoro, la fatica di questo mestiere così antico, sia i rapporti umani che si stabiliscono tra i protagonisti della vicenda, dei quali vengono alla luce progressivamente i bisogni, i desideri, le aspettative, per il futuro.
Questa è la prima parte del film, che penso sia anche la parte stilisticamente e narrativamente più riuscita, quella più forte e intensa; anche perché è raro incontrare nel cinema la narrazione dei gesti del lavoro, che è qualcosa di così quotidiano, di così vicino alla routine giornaliera. E’ una realtà ripetitiva che difficilmente trova l’attenzione, la chiave giusta per essere raccontata da parte di chi fa cinema. Invece mi sembra che qui la chiave giusta sia stata trovata, grazie alla volontà di restituirci la tensione che c’è dietro questi gesti ripetuti dai pescatori ogni giorno, nel contesto di un’attività che può nascondere pericoli e insidie da non sottovalutare. Il fatto che questi uomini mettano regolarmente in gioco se stessi, le proprie vite, diviene evidente proprio nei momenti in cui essi decidono di avventurarsi in acque extra territoriali. Vengono scoperti dalla motovedetta di un paese africano, e sono costretti a scappare abbandonando le reti che avevano calato.
E’ molto bello anche il momento in cui Marra ci racconta il ritorno per recuperare quella che è la fonte del loro sostentamento, sfidando ancora di più il pericolo per tornare in possesso dei propri strumenti di lavoro. L’efficacia di questa parte del film si deve anche a scelte stilistiche anomale. E’ un linguaggio cinematografico che non concede niente ai fronzoli, alla bella composizione, al raccordo pulito, fluido: al contrario, è uno stile secco, molto duro, fatto di inquadrature frontali e stacchi di montaggio “sporchi”, situazioni che a me, volendo azzardare un paragone sicuramente impegnativo, hanno ricordato in certi casi la frontalità del primo Pasolini. Si insiste nel rimanere fermi sulle inquadrature di questi volti; sono volti di attori non professionisti, attori che recitano dando una forma di straniamento forte alla loro interpretazione, che spesso fa sostanzialmente a meno di tutte le regole della buona recitazione. Abbiamo inquadrature piuttosto lunghe, così come in altri momenti prevale la costruzione del ritmo attraverso un montaggio rapido sui gesti del lavoro.
Se questa è per me la parte più convincente del film, il film stesso lo potremmo suddividere in due capitoli. Alla parte del lavoro in mare e dell’incidente con la motovedetta africana segue il ritorno a Napoli. Qui si scoprono altri elementi della dimensione esistenziale dei protagonisti, dei rapporti che loro hanno con questa città. Tra questi marinai Franco, a esempio, che è molto giovane, ha un forte legame con una ragazza che vorrebbe portare via con sé, magari in America, lasciando la vita in mare. Un altro è extracomunitario, Samir, e probabilmente anche lui, mettendo da parte i soldi che guadagna, mira ad altre prospettive. In qualche modo il mare da una parte è amato, ma per altri versi lo si può anche odiare, come si ricava da certe discussioni tra il comandante della barca, Salvatore, e Franco. Questo secondo capitolo del film tenta di costruire il retroterra di questi personaggi che, partendo per la pesca, sono abituati a correre rischi concreti per guadagnarsi da vivere. Quello che si scopre esplorando questo retroterra è che anche per chi rimane vi è una uguale instabilità, una uguale impossibilità a realizzare i propri sogni e le proprie aspirazioni lavorative. Emergono le dinamiche del controllo esercitato sulla pesca da parte della camorra; è una ragnatela di rapporti che rendono difficoltosa la permanenza in una città problematica, dove facilmente si intrecciano storie legate ai debiti, agli scambi di favori. La parte finale del film giunge in maniera quasi inaspettata, essendo i quattro praticamente costretti a ritornare a pescare in Sicilia. In particolare Franco, che forse è il personaggio che Marra sviluppa di più, vede infranto il sogno della sua vita, allorché la donna che ama va incontro a un destino tragico. Successivamente, durante una notte di navigazione, quando ormai per il ragazzo sembra chiusa qualsiasi prospettiva e seppellita ogni speranza, è proprio Franco ad accorgersi di qualcuno in acqua e a tuffarsi per rispondere a una richiesta di aiuto, perdendo così il contatto con la propria barca. Viene recuperato da un’imbarcazione di immigrati che tentano di attraversare il braccio di mare che separa la Sicilia dall’Africa. Riportato a terra, sarà lui stesso a farsi credere dalle autorità uno degli extracomunitari con i quali ha condiviso il viaggio, rinunciando così alla propria identità. Il film finisce con questa nota paradossale, per cui il ragazzo viene reimbarcato come immigrato clandestino per essere riportato in Africa. Franco decide quindi spontaneamente di riattraversare quel braccio di mare, determinato evidentemente a raggiungere quel paese da cui gli altri invece vogliono scappare via.
Credo che qui sia riconoscibile un’apertura, in un film che peraltro è molto duro, un film che concede poco alla speranza. Il finale del film mostra in una luce diversa quel mare notturno dove i pescatori lavoravano, nelle scene iniziali; e lo mostra affollato di gente, attraversato da uomini che cercano una possibilità altra di vita, nella solarità delle immagini che conducono all’epilogo. Parallelamente vi è il percorso a ritroso di questo personaggio che ha compiuto una scelta consapevole. Il personaggio di Franco è come sospeso in questa dimensione di precarietà, così come precaria si è rivelata la realtà del lavoro, in un contesto nel quale il giovane si ritrova sempre più sradicato, sconfessato nelle proprie aspirazioni da eventi anche drammatici.
Sento quindi nel film questa sospensione, ma nello stesso tempo questa sospensione apre una possibilità diversa, volta ad azzerare tutto, mentre si profilano nuove scelte di vita. Vorrei interrompere questa mia introduzione per chiedere a Vincenzo Marra in che cosa si riconosce e che cosa vorrebbe correggere di questa lettura di Tornando a casa.

Vincenzo Marra – Nella presentazione che è stata fatta ci sono cose nelle quali mi riconosco maggiormente, e altre sulle quali vorrei tornare per alcune puntualizzazioni. Per prima cosa occorre specificare che, sin dal momento in cui ho scritto Tornando a casa, avevo in mente questo pensiero, che un viaggio verso Sud non per forza debba essere un viaggio di non-speranza. Ritengo che quello che io racconto sia comunque un viaggio di speranza. Rivendico questa prospettiva anche a proposito di un finale che è, sì, metaforico, ma che non definirei paradossale: c’è anzi qualcosa che ha strettamente a che fare con ciò che si è abituati a vedere. In linea generale il personaggio di Franco non rinuncia alla propria identità, non la perde completamente; è un discorso che rimane a metà, tra la conservazione di un’identità di fondo e l’avvicinamento a qualcos’altro che già si profila davanti a lui. C’è un elemento sul quale ho insistito parecchio e di cui alcuni si sono accorti: fino alla fine del film, sia nel momento in cui Franco rinuncia all’idea del suicidio, sia poi nelle scene finali, ho messo in rilievo la presenza di una croce. Oggi, con gli eventi cui abbiamo assistito, viene naturale guardare a quella presenza con un occhio particolare, ma già in partenza rappresentava qualcosa cui volevo dare un valore. Il film nasce per vari motivi; tra le diverse urgenze che mi hanno spinto a raccontare questa storia, una è legata all’idea di un doppio conflitto, di una guerra tra poveri, attraverso la metafore di un lembo di mare molto stretto dove si avvertono un movimento continuo e situazioni problematiche: gli italiani sconfinano per andare in Africa a pescare, e quindi per sopravvivere, mentre quello stesso mare è l’ultimo baluardo che separa da una ipotetica speranza persone che vengono da realtà molto diverse. A questa idea di un conflitto che si crea tra gli ultimi, che io credo possa essere verificato storicamente un po’ da tutti e un po’ in tutte le epoche, si lega un altro tema per me molto importante: la solidarietà. Quindi quel finale, dove il discorso è portato avanti su vari livelli, assume anche una forma di augurio: visto l’argomento del film, potremmo dire ironicamente “siamo sulla stessa barca”. A proposito dei differenti discorsi sull’identità che s’intrecciano all’interno del film, vorrei specificare una cosa: che io non credo tanto nella cattiveria quanto nella cecità delle persone, accentuata dalle dinamiche difficili di una autentica lotta per la sopravvivenza, allo stesso modo in cui è cecità quella di quei carabinieri che non si accorgono di quella croce che porta Franco. Rivendico ulteriormente, a questo punto, la possibilità di un viaggio di speranza. Valga quanto sto per dire come augurio, anche a livello ideologico: sono venuto a scoprire, dopo aver fatto il film, che c’è un piccolissimo paesino in Tunisia dove le famiglie siciliane, nell’immediato dopoguerra, mandarono alcuni dei loro figli. I primogeniti partirono di preferenza per gli Stati Uniti, l’Australia e altri paesi. Gli altri, per sopravvivere, si stabilirono in Africa, e lì si è formata una piccola comunità dove puoi ancora sentire parlare siciliano. Vorrei poi aggiungere qualcosa su quanto Antonio Medici ha detto, in sede di analisi, sui capitoli sulle due parti fondamentali in cui sembrerebbe diviso il film. La mia intenzione, da quando l’idea è nata fino al momento del montaggio, è stata comunque quella di sviluppare il film in quattro capitoli: il primo è caratterizzato da un’attenzione particolare all’azione, ai gesti dei personaggi. Il secondo è quello delle parole. Il terzo è quello dei silenzi. Il quarto corrisponde alla conclusione di cui abbiamo abbondantemente parlato.

Antonio Medici – Ciò che lei ha messo in evidenza a proposito del discorso sull’identità, ovvero l’elemento della croce esibita sul collo da Franco, è particolarmente rilevante. In seguito alla visione del film alcuni avevano esternato un dubbio, ipotizzando addirittura che si trattasse di un errore, di un’imperfezione che rendeva poco credibile l’anonimato cercato dal giovane di fronte ai carabinieri e alle altre autorità che lo interrogavano. In realtà lei ha inquadrato la presenza di quella croce con una sottolineatura forte, significativa: non si tratta di cancellare radicalmente la propria identità, la propria cultura, la propria provenienza. Neanche io intendevo dire questo. Il mio riferimento andava più direttamente a quell’identità burocratica, di cittadino italiano alla quale Franco si sottrae nel momento in cui si disfa dei propri documenti. Dopodiché credo che il problema dell’identità nel film acquisti consistenza come discorso sull’identità sospesa, sulla ricerca di punti di riferimento. Ci può confermare la presenza di questo tema, di questo clima di sospensione che sembra percorrere tutto il film, con particolare riferimento alla questione del lavoro?

Vincenzo Marra – Indubbiamente nel film si intrecciano altri motivi, oltre a quelli che ho già segnalato del conflitto tra poveri e della solidarietà, e il tema di cui tu parli si va ad aggiungere quindi ad altri aspetti importanti. Uno di questi coincide con l’idea che tutti i protagonisti del film sognano di tornare a casa, ma nessuno in realtà ci riesce. Per casa intendo quel luogo dove rimane sempre qualcosa di te a reclamare una forma di appartenenza, anche qualora ci si trovi forzatamente lontani e impossibilitati al ritorno. Questo sogno di poter tornare a casa, rafforzato dall’elemento metaforico del mare che diventa la vita e la morte, si confronta con un microcosmo di diciotto metri dove tutto quanto accade, quasi un paradosso se consideriamo gli spazi immensi che lo circondano. Alla speranza di tornare a casa si lega un altro tema che riflette bene il mio essere napoletano. Mi riferisco alla napoletanità intesa secondo certe mie convinzioni. Spesso e volentieri, nel dover parlare di determinati eventi che accadono nella nostra città, si finisce per riconoscere il sussistere di grandi potenzialità, ma al tempo stesso si nega la possibilità di andare avanti, d superare i problemi dando un seguito a questo potenziale. Si arriva a volte a uno strano rapporto di amore/odio per il quale quando sei lontano da Napoli pensi sempre al momento del ritorno, e quando finalmente torni, vorresti riandartene dopo tre giorni. Nel film si sente anche questo:il senso di appartenenza al luogo dal quale si proviene, si sovrappone al senso di appartenenza ancora più forte che lega i personaggi al mare. Nello scrivere questo film pensavo spesso a una frase che, quando ero piccolo, ero solito sentire dal fratello di mio nonno, un uomo che aveva navigato tutta la vita e che veniva spesso in visita nella casa dei nonni. Lui diceva: “Ricordati, nella vita ci sono i vivi, i morti e i naviganti”. Questo ricordo ha anch’esso a che fare con il film. Nel discorso sul senso di appartenenza, e più in particolare sulla volontà di rimanere, sul punto di vista di chi rivendica questa volontà, si inserisce l’episodio della morte di Rosa. Questa scelta viene pagata, non completamente per caso, visto che comunque alcune cose succedono più facilmente in certe parti del mondo. In quell’ora e mezza di durata del film ho cercato di dare forma a questo groviglio di emozioni.

Gianfranco Cercone – Ha insistito molto nel parlare del livello metaforico di Tornando a casa. Ciò corrisponde alla visione che io ho avuto del film, ma la cosa che personalmente mi è piaciuta anche di più è proprio la capacità di rendere un mondo concreto, quello dei pescatori, una resa che non si ferma agli aspetti esteriori. Quello che vorrei chiedere è da che cosa deriva questa conoscenza non esteriore, ma così intima di tale mondo. Vorrei poi aggiungere una riflessione: il caso ha voluto che poco prima di vedere il suo film leggessi una raccolta di racconti di Comisso, intitolata Gente di mare, che presenta il mondo dei pescatori degli anni Trenta. Mi è sembrato che ci fosse molta distanza tra il mondo che racconta lei e quello di Comisso. La differenza la potrei riassumere così: anche nelle miserie, che Comisso d’altra parte non nega, trapela l’immagine di un mondo felice, fiero di sé. Quello di Franco e degli altri pescatori che lei ha rappresentato sembra di più un mondo depresso, dal quale si vuole fuggire. Questa perlomeno è stata la mia sensazione.

Vincenzo Marra – Rispetto alla prima domanda dirò che sin dall’inizio avevo una convinzione. Quando si è prospettata la possibilità di realizzare Tornando a casa, ero ben lontano dall’idea di realizzare un film intimista su un ragazzo della mia età, in un contesto metropolitano. L’idea è stata invece quella di fare un film lontanissimo da me nell’ambientazione, nei personaggi e in tutto il resto, ma vicinissimo a me sotto certe angolazioni. Ci sono tantissime cose mie nel film, ma non in forma diretta, perché ritengo che noi, nel Duemila, in Europa, sappiamo ancora usare il cinema per raccontare storie, storie che aiutino lo spettatore a entrare in mondi differenti dal proprio. Questa prospettiva si concilia perfettamente con certi complimenti che mi hanno rivolto più volte in questi mesi. Rimanendo nel merito di queste osservazioni, ed esulando per un attimo dai livelli metaforici che pure costituiscono un'importante risorsa del film, resta il fatto che io ho scelto di raccontare una storia dall'interno. Non ho fatto un film su delle persone, ho fatto un film con delle persone. E’ successo poi qualcosa di strano. Nel periodo in cui scrivevo la sceneggiatura mi è capitato più di una volta di notare sui giornali, tra le notizie brevi, trafiletti che accennavano a barche sequestrate nel tratto di mare tra l’Italia e l’Africa. Ma erano articoli brevi, senza approfondimento. Stavo quindi lavorando su un progetto del genere, ma senza aver messo niente per iscritto, perché preferisco sempre aspettare un po’ di tempo per verificare la bontà di un’idea. Dopo un po’ è arrivato il momento di buttare giù qualcosa di concreto. Scrissi allora la sceneggiatura del film, senza saperne molto di più su quel mondo. Ad un certo punto, reso ansioso dal sospetto di essermi inventato qualche stupidaggine, investii i soldi destinati alla realizzazione del film per un viaggio a Mazara del Vallo, dove c’è la più grande flotta del Mediterraneo. Dopo tre giorni la più grande soddisfazione è stata scoprire che quanto avevo scritto corrispondeva abbastanza da vicino al vero. Ho tratto da questa esperienza una carica incredibile; in seguito sono tornato a Roma e ho visto concretizzarsi la possibilità di fare il film; in me ha prevalso la volontà di realizzarlo con i pescatori, che avrebbero dato quella verità non metaforica, ma reale di ciò che si stava facendo. Forse alla fine il complimento più bello che mi è stato fatto è proprio questo, il domandarmi come sono riuscito a raccontare la loro esperienza con il mare, senza averla conosciuta prima di tuffarmi in questo progetto. Rispetto poi al fatto di aver rappresentato un ambiente depresso, direi anzi che è poco, se guardiamo al genere di vita che conducono questi pescatori, che condividono una percezione dell’esistenza completamente diversa dalla nostra. E’ una vita particolarmente sacrificata che porta magari a svegliarsi all’una di notte, a ritrovarsi in mare alle due, a pescare per molte ore consecutive mangiando e andando a dormire in orari totalmente sfalsati. Questa vita però è anche una scelta, e le persone con cui ho parlato vivono situazioni particolari e hanno le loro motivazioni. Quando ad esempio nel film ho descritto il desiderio di Franco di andare in America, poteva sembrare anche a me, a volte, un’idea fuori tempo. In realtà nel paesino da dove vengono i personaggi del film, che si chiama Monte di Procida, quasi il novanta per cento dei ragazzi è emigrato negli Stati Uniti. Anche questo è significativo.

Una spettatrice – Premetto che a me il film è piaciuto tantissimo, così come mi è piaciuto in generale il taglio che è stato dato alla storia. Vorrei permettermi però una piccola critica: a tratti si ha l’impressione che lei abbia voluto mettere troppa carne al fuoco. Al di là del tema del lavoro, della vita dei pescatori, mi sembra che gli elementi del racconto legati alla camorra, alla delinquenza minorile, non siano stati adeguatamente sviluppati. Vorrei sapere qual è la sua reazione a questo genere di osservazioni.

Vincenzo Marra – Chiaramente su questo punto non sono d’accordo. Solitamente non mi piace sostenere le mie opinioni rifacendomi ai giudizi degli altri, ma in questo caso non mi atterrò a questo principio, e riferirò invece quanto è stato detto da alcuni critici: è stato detto cioè che per fortuna non vi è in questa opera prima la volontà di raccontare tutto. Ciò ha per me un valore positivo, che si rapporta alla scelta di affrontare un discorso metaforico e reale al tempo stesso, intersecando continuamente e in diversi modi questi due livelli. Sul piano della realtà, la lotta per la sopravvivenza sostenuta da questi pescatori ingloba la necessità di andarsene da un certo ambiente, perché si è in troppi. La camorra, che entra in questo discorso, da me non è certo negata: soltanto che il suo ruolo non è enfatizzato come usano fare coloro per i quali è conveniente puntare il dito sempre in quella direzione. La camorra indubbiamente esiste, ma io ho scelto di rappresentarla con una certa misura, come si vede nelle scene che riguardano il cosiddetto armatore. Queste almeno erano le cose che, dal mio punto di vista, dovevano entrare nel film. Le discussioni che vengono dopo la visione del film possono essere interessanti, ma hanno sempre un valore relativo. Potrei raccontare a questo proposito un fatto che io reputo bello e significativo, avvenuto durante un altro incontro tenutosi qui a Roma. All’inizio della discussione ho visto una ragazza diretta verso l’uscita, così lentamente che sarebbe stato difficile non notarla. Finito l’incontro, appena sono uscito, mi si è avvicinata per chiarirmi più o meno questo concetto: il tuo film lo ho amato, ma non mi interessa niente di quanto puoi dirne tu, perché la mia immagine del film me la sono già costruita da sola. In un certo senso quella ragazza aveva ragione; le mie stesse spiegazioni hanno valore solo fino a un certo punto.

Gianfranco Cercone – Lei ha scelto un tema che da un certo punto di vista è apertamente impopolare; il mondo di pescatori è qualcosa di cui si può immaginare un impatto non così facile sull’interesse del grande pubblico. Come si pone il problema del rapporto con il pubblico in sala? Antonio Capuano, che ha partecipato a uno dei nostri incontri, ci ha detto che secondo lui l’unico modo per rispettare il pubblico è ignorarlo. Lei condivide questa posizione, o le sue scelte contemplano anche strategie volte ad avvicinare un pubblico più vasto a tematiche difficili?

Vincenzo Marra – Con questa domanda si aprono questioni delicate, e io non vorrei dilungarmi. C’è però un episodio piuttosto emblematico, che si potrebbe citare: una giornalista radiofonica ha addirittura incentrato la sua intervista sulla presenza nel film di un personaggio maghrebino, e sui toni da usare oggi per una storia del genere, in relazione ai fatti accaduti durante e dopo l’undici settembre. Di fronte a pressioni di questo tipo, ribadisco soltanto che non compete a me adoperarmi per usare toni rassicuranti; non devo certo sostituirmi a chi si occupa di giornalismo. Il mio compito consiste nel provare a raccontare una storia, garantendo al progetto serietà e impegno. Per quanto riguarda il rapporto con il pubblico, posso partire dal fatto che, quando parlavo inizialmente con il produttore dell’idea di un film sulle vite di pescatori napoletani, interpretato in dialetto da pescatori veri, rischiavo di essere preso per folle. Alla fine però qualche riscontro confortante Tornando a casa lo ha ricevuto: la pellicola sta girando da mesi, destando attenzione e curiosità anche fuori dai confini. Certamente, trattandosi di un piccolo film, non ha realizzato grandi incassi, incassi paragonabili a quelli di pellicole partite con altre aspirazioni. Io credo in ogni caso che il pubblico vada rispettato, ma nel senso che non si può prenderlo in giro: parecchie persone della mia opera hanno apprezzato la serietà, la ricerca della verità, il tentativo di portare alla luce determinate situazioni.

Mino Argentieri – Produttivamente come è nato il film? Ha attinto a fondi particolari, con il concorso di qualche istituzione?

Vincenzo Marra – Sì, il film è stato presentato al Ministero, e ha ricevuto finanziamenti in base all’articolo otto, in qualità di opera prima. Dopodiché lo abbiamo realizzato con quei soldi, dando secondo me il giusto valore al denaro che avevamo a disposizione. Però in fin dei conti non avevamo a disposizione una grossa cifra per girare un film in pellicola. La costrizione a stare in mezzo al mare su una barca per cinque settimane, almeno da questo punto di vista, ha avuto un effetto positivo, ci ha aiutato. La domanda che mi sono fatto spesso e volentieri, magari in forma paradossale, è se in condizioni di maggiore normalità per le riprese, non ci sarebbero stati invece più problemi. Quando si è girato a terra, infatti, i soldi erano già considerevolmente diminuiti, e allora ho scelto di costringermi in determinati limiti.

Mino Argentieri – Quindi ha lavorato anche con una piccola troupe?

Vincenzo Marra – Per la composizione della troupe bisogna rispettare determinate regole sindacali, che giustamente tutelano i lavoratori del settore. Di conseguenza è stato garantito quel numero minimo di collaboratori previsto da tali disposizioni.

Uno spettatore – Quanto è durato, e in che maniera è stato portato avanti il lavoro di sceneggiatura?

Vincenzo Marra – La storia è questa. Io ho scritto una prima versione più o meno quattro anni fa: l’avevo scritta per me, non con l’intenzione di farne subito un film. Quando ho deciso di provare a proporla a qualcuno, ho fatto quel viaggio in Sicilia di cui abbiamo parlato. Ho visto durante questa specie di sopralluogo che quanto avevo scritto per un buon settanta per cento mi andava bene; nuove suggestioni che sono nate lì hanno suggerito alcune integrazioni. Nel momento in cui ho incontrato un produttore e si è materializzata la possibilità di realizzare il film, c’è stato poi altro lavoro, terminato il quale finalmente si è portato il progetto al Ministero per richiedere i finanziamenti previsti. Quando è arrivato il finanziamento, ho ripreso in mano la sceneggiatura, che nel frattempo non avevo più toccato, ed è successa una cosa strana. C’era una versione già depositata al Ministero, ma io ho approfittato di ogni momento che avevo a disposizione per riscrivere alcune cose, ed essere il più possibile aderente a quel mondo di persone con cui m trovavo a contatto e con cui interagivo. C’era quasi da chiedersi se, per assecondare la mia volontà di fare un lavoro dall’interno, non stesse venendo fuori un altro film. Quando il film è stato montato, mi è ricapitata tra le mani quella sceneggiatura del Ministero. Ho potuto constatare che, al di là di piccoli cambiamenti accettabili, quanto era stato effettivamente realizzato corrispondeva da vicino a quello che avevo scritto inizialmente, all’idea forte da cui ero partito.

Uno spettatore – Nanni Moretti nella Stanza del figlio mostra con molte scene, con molta insistenza, il momento in cui mettono il figlio nella bara. Tu ti limiti a un lenzuolo posto sopra il corpo di Rosa. Che differenza di approccio c’è nei due modi che sono stati scelti per rapportarsi alla morte?

Vincenzo Marra – Per me la scelta è stata quella di raccontare la morte attraverso poche inquadrature, nelle quali principalmente è di scena il silenzio. Il silenzio accompagna la presenza del capitano all’obitorio, che in veste un po’ paterna si trova lì, impossibilitato però a fornire qualsivoglia aiuto all’amico, in quelle circostanze tragiche. Vi è poi quel carrello all’indietro, in casa, che è molto significativo, perché tramite quel carrello volevo scoprire non solo il luogo di tutta una vita, molto piccolo, ma soprattutto il vestito fatto in dono alla moglie e abbandonato in fondo al letto. Questa è un’idea di base per raccontare la morte, ammesso che la si possa raccontare; a me non piace andare a calcare la mano su altri aspetti con i quali si può giocare facilmente, toccando le corde emotive di uno spettatore che rimane di fatto impotente di fronte a quello che gli si mostra. Per raccontare la cosa in un certo modo ho provato a immaginare la reazione emotiva del personaggio di fronte a una notizia così improvvisa e devastante, sottraendo enfasi quanto più possibile alla rappresentazione di questi momenti. Mi interessava invece rimanere ancorati, per una forma di rispetto, al modo di intendere la vita e la morte da parte di queste persone abituate a vivere sul mare, capaci di rivelare grande contegno e autocontrollo di fronte alle situazioni più dure. I momenti in cui ci si abbandona alle lacrime ci sono, ma sono generalmente momenti personali, intimi, mentre non mi andava di sottolineare il dolore con mezzi troppo espliciti.

Uno spettatore - Avendo visto La terra trema, in termini di approccio e di stile che cosa pensa vi sia di diverso nel suo film rispetto a quello di Visconti?

Vincenzo Marra – Non so se sia il caso di fare un confronto del genere. Comunque, ragionando un po’ sull’opera di Visconti, ho visto che anche lì c’è la lotta per la sopravvivenza, la contrapposizione a un destino duro e alle improvvise avversità che sorgono di continuo. Qualcosa di differente vi è nel fatto che io ho scelto di fare parte del film in mezzo al mare, mentre in La terra trema tutte le inquadrature sono da terra, tranne magari il finale, ed è da terra che viene raccontata l’esperienza della vita sul mare. La mia ossessione invece era che io da quella barca non volevo mai vedere una luce della costa, nonostante stessimo girando nel golfo di Napoli. Salvatore stesso manovrava la barca in modo tale da rimanere in una zona d’oscurità, per poi tornare di corsa in posizione per le riprese.

Antonio Medici – Questo aneddoto ci mostra un Salvatore che agiva come marinaio effettivo e come marinaio personaggio del film. Questi personaggi del film che sono in primo luogo marinai veri sono anche loro in un certo senso coautori del film? Tu in un altro momento hai detto di non aver dato loro la sceneggiatura, ma un copione, e che, perché rimanesse una storia raccontata dall’interno, ti sei trovato a osservare in qualche modo la loro esperienza. Come sono andate quindi le cose?

Vincenzo Marra – forse non me ne rendevo conto, quando andavo per i porticcioli a cercarli, ma il problema era quello di far dire loro quello che volevo io, senza che loro lo sapessero, ma con estrema coscienza.

L’incontro si è svolto presso la libreria Bibli di Roma, il 2 dicembre 2002, nell’ambito dell’iniziativa promossa dalla Biblioteca del cinema “Umberto Barbaro”, “Gli autori dell’anno”

(Trascrizione e sintesi a cura di Stefano Coccia)



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