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Incontro con Matteo Garrone (1)

(da: Cinemasessanta, n.3, marzo/aprile 2001)

Giorgio De Vincenti: Matteo Garrone, regista appena trentenne, ha già tre lungometraggi al suo attivo: Terra di mezzo (1997), Ospiti (1998) e di recente uscita Estate romana. Autore maturo, propone un cinema diverso dagli standard della produzione italiana, assimilabile a quello francese di un Garrel, penso a La naissance de l'amour, o a La maman et la putain di Eustache, un cinema le cui forme viaggiano a mezza strada tra la finzione e il cinema-verità, dove i personaggi sono cuciti addosso agli attori, un cinema che si costruisce - anche sul piano della sceneggiatura - in corso d'opera. Ed è il caso, mi sembra di Estate romana (scritto con Massimo Gaudioso), dove è forte la sensazione di essere davanti a un'opera realizzata nel suo farsi, in una sorta di happening che avviene con la cinepresa a mano. Lezione antica, peraltro, che ha un punto di riferimento altissimo in Renoir, le cui sceneggiature venivano rimesse in questione sul set, nel procedere della messa in scena e della ricerca delle immagini. L'immagine che è il punto di scaturigine di tutto, tale da rimettere in discussione lo scritto, che di fatto si fa ignoto e oggetto di ricerca persino nell'atto del filmare. Una pratica diametralmente opposta a quella del découpage classico hollywoodiano, dove le immagini sono il momento della formalizzazione di un testo chiuso, perfettamente delineato che aspetta solo di essere illustrato. Garrone, soprattutto in Estate romana, mi sembra vicino a quel primo modo di concepire il cinema e non è azzardato supporre che siano i registi francesi menzionati poc'anzi i suoi compagni di strada, per quanto impliciti e non dichiarati.

Garrone: È vero, mi sono sempre mosso più per istinto che attraverso un'idea precisa e chiara di quello che volevo realizzare. In questo senso, i miei film vengono fuori facendosi. Tutte le volte che ho cercato di chiudermi in casa per scrivere una sceneggiatura, ne ho sempre ricavato la sensazione che quello che scrivevo suonasse falso. Di fatto, parto dalle immagini e, con esse, dai luoghi, dalle atmosfere, dai personaggi, attraverso cui cerco di raccontare delle storie a volte abbastanza esili. La scrittura non è il mio punto di partenza. Durante le riprese la sceneggiatura mi serve più che altro come bussola. Quello che conta davvero e ciò che succede sul set e tra gli attori. Per questa ragione mentre giro sto sempre in macchina di fronte a scene che spesso si improvvisano, scene a volte irripetibili. Si tratta di attimi, di un gesto, del movimento di una mano e ci tengo ad essere io ad avere la responsabilità di filmare quegli attimi che so essere irripetibili. In Estate romana, dove peraltro, rispetto agli altri film c'è più costruzione di sceneggiatura, i momenti di Rossella con gli altri personaggi - al contrario di quelli che si centrano su Salvatore e Monica - sono molto vicini alla verità, al documentario. Senz'altro, il mio è un cinema in cui il confine tra la realtà e la finzione, tra il personaggio e la persona, è molto sfumato.

De Vincenti: Trattandosi di un tipo di cinema in cui la cinepresa è uno dei protagonisti, potete dirci qualcosa a proposito delle dinamiche del set?

Salvatore Sansone: Io non sono un attore professionista, ma sono da molto tempo amico di Matteo. E amico lo sono diventato degli altri attori e della troupe, perché tra noi si era instaurata un'atmosfera fortemente comunitaria. Estate romana è stato un film collettivo. Non c'erano tensione e attrito, non c'erano stringenti regole fisse. Vivevamo insieme come una piccola comune in un'atmosfera di provvisorietà. Mancavano le grosse strutture del cinema. Si girava col furgone acquistato da Matteo, si vagava per la città e nel vagare si creavano le situazioni e le occasioni che lentamente poi hanno formato il film. Ho avuto l'impressione di vivere in una strana dimensione di vagabondaggio a tratti faticoso, estenuante, precario, ma piacevole. Una dimensione di libertà e di anarchia controllata. Il rapporto con gli altri attori, reso difficile all'inizio dalla necessità di improvvisare, si è risolto in una naturale armonia. Sulla base della struttura creata da Matteo, dopo i primi quattro, cinque giorni di lavoro, è venuto spontaneo interagire, siamo involontariamente entrati nel meccanismo del film.

Garrone: Può essere utile e divertente raccontare il giorno in cui abbiamo presentato la sceneggiatura a Rossella Or. Con Salvatore e Massimo [Gaudioso, co-autore della sceneggiatura, n.d.r.], andammo da Rossella, ospite in una sperduta e alquanto spettrale villa di campagna. Lei ci conosceva a malapena. Io stesso l'avevo incontrata una sola volta, mi aveva fatto una grande impressione e sentivo che sarebbe stata perfetta per un Bartleby al femminile. Non ci aspettava e nessuno le aveva detto che eravamo fuori in giardino per lei. L'attesa fu lunga, stava dormendo, ci accolse male, come prevedibile. Per aggravare la situazione le sottoponemmo una sceneggiatura di tre fogli protocollo scritti a mano, compiendo l'innegabile errore di farla spiegare a Massimo che più andava avanti, più entrava in depressione, trascinando con sé gli altri. Di fronte a questo racconto confuso, sfilacciato, senza centro, lei si faceva piccola piccola, e solo più in là, spaurita e dolente, ebbe il coraggio di sussurrare: "Matteo, ma veramente hai scritto tu questa cosa, c'entri qualcosa?".

De Vincenti: A proposito del cast: Salvatore Sansone nella vita è un artista - i dispositivi luminosi, trasparenti e opachi insieme, del film sono opera sua -, ha fatto videoarte ed ora sta scrivendo dei film. Monica Nappo è una giovane e promettente attrice. Citerei tra le cose che ha fatto: Il Tartufo con la regia di Tony Servillo. Rossella Or, invece, è una star delle cantine romane degli anni Settanta e nel film la sua presenza, con quella di Victor Cavallo e Simone Carella, rimanda vivacemente a quel mondo sconclusionato e alternativo. In questo senso, le ambientazioni del film - come per le pellicole precedenti - non potevano che essere la Roma nascosta e piazza Vittorio, luogo dell'immigrazione per eccellenza. Coagulando l'interesse intorno al mondo dei sopravvissuti delle cantine romane, l'ultimo film di Garrone racconta anche una proposta alternativa di vita, quella dei quei teatranti e degli intellettuali che perseguono - Rossella ne è segno chiarissimo - un sogno di bellezza utopico e destinato al fallimento. Da dove nasce l'esigenza di parlare di loro? Perché Victor Cavallo, Simone Carella, Rossella Or?

Garrone: Per rispondere, occorre che faccia riferimento a come è nata l'idea del film. Da una parte, c'era un racconto di Melville, Bartleby lo scrivano, centrato sul rapporto tra Bartleby, figura spettrale e inquietante, generatrice di sensi di colpa, e il suo datore di lavoro, uomo bonario e pacifico, che patisce col suo arrivo la distruzione di un equilibrio armonico; dall'altra, un documentario realizzato da mio padre, critico teatrale, e di Beppe Bartolucci nel 1980. Era L'altro teatro e raccontava il teatro romano alternativo di ricerca. Dopo averlo rivisto è scattata naturale l'esigenza di sapere che fine avessero fatto i protagonisti di quella stagione e che cosa facessero per cercare di non scomparire. Questo è il tema sotterraneo del film e non a caso durante la lavorazione il titolo era Come faccio a non scomparire? Estate romana è subentrato poi, in riferimento all'estate del 1980, di Nicolini. Volevo raccontare attraverso la soggettiva di Rossella i cambiamenti di questa generazione, volevo fare un film sulla memoria che a volte viene cancellata dal tempo non sempre con giustizia.

Sansone: Di Victor Cavallo, attore e poeta scomparso di recente, vorrei ricordare uno slogan: "perdere e perderemo".

De Vincenti: Come nasce la collaborazione con Massimo Gaudioso e che tipo di lavoro avete fatto sulla sceneggiatura?

Garrone: Il lavoro di sceneggiatura, come già accennato, è stato un work in progress. All'inizio era molto perplesso sul mio modo di lavorare. C'era una differenza sostanziale tra noi: lui voleva aspettare, io, invece, fremevo. Durante le sedute di sceneggiatura, durante le attese, tra scambi e sguardi parchi, quante volte ho pensato "basta, chiudo gli occhi e mi lancio!", per girare, muovendomi con poche persone, conservandomi la possibilità di tornare su quello che ho fatto.

De Vincenti: La fotografia di Estate romana è molto accurata, più densa e significativa che negli altri film. Lei viene dalla pittura e in quest'ultima opera si avvale per la fotografia della collaborazione di Marco Onorato.

Garrone: La preparazione di Estate romana è stata più accurata. Ho scelto le location facendo una lunga serie di fotografie. Il settore della fotografia è il mio forte visto che è da là che provengo. In passato, ho fatto l'aiuto operatore e l'assistente per mia madre che è fotografa.

De Vincenti: Che cosa fa, come si muove un esordiente italiano per realizzare un film?

Garrone: Il mio è un caso anomalo poiché ho autoprodotto i miei primi due film. Alle spalle, del resto, avevo già una certa esperienza che mi veniva dall'aver già lavorato nel cinema. Sapevo quello che andava fatto e quello che doveva essere evitato. Il primo film, costato pochissimo, ha vinto dei premi che mi hanno permesso di realizzare il secondo. Il terzo è una piccola coproduzione. Posso lavorare così, però, perché stilisticamente i miei film sono molto semplici e possono essere realizzati con poco. Se avessi avuto un altro gusto e un diverso modo di girare, tutto sarebbe stato più complicato. Per quel che riguarda la distribuzione, Terre di mezzo ha avuto la fortuna di essere distribuito dalla Tandem di Nanni Moretti e dalla Mikado. Con Ospiti, distribuito dalla Pablo, ho perso circa 140 milioni. È allora che ho capito l'importanza di essere inseriti in un "pacchetto" giusto. Terre di mezzo, che faceva parte di un pacchetto diverso, evidentemente più accattivante, è stato venduto a Tele +, Rai, ecc. Estate romana è distribuito dall'Istituto Luce, ma ha patito comunque la scelta di un periodo d'uscita svantaggioso: novembre, a ridosso dei film con i contratti di Natale, che ti schiacciano ad un solo mese dall'inizio della programmazione. Di fatto, nonostante stesse incassando bene, a sole due settimane dall'uscita, il film è passato da una sala con 150 posti ad una con 30. A fatica sono tornato nella sala grande per rimanervi un'altra settimana.

Uno spettatore: Quanto ha contato per lei essere figlio d'arte?

Garrone: Nel caso di Estate romana, molto. Da un documentario di mio padre è nato il progetto del film. Grazie a lui ho visto tanto teatro; decisamente lui ha contribuito molto alla mia formazione.

Alessandra Fagioli: Nella Roma impietosa, degradata, da "lavori in corso" che lei descrive, mi colpisce che tra i tre personaggi principali - diversissimi tra loro - non si sviluppi nessuna relazione affettiva, non si inneschino dinamiche relazionali.

Garrone: Il film si sviluppa su due piani e ci siamo accorti quasi subito che tra Salvatore e Rossella non poteva e non doveva esserci un vero dialogo, che essi si muovevano su livelli differenti. Per questo abbiamo allargato il ruolo di Monica, grazie alla quale si approfondisce anche quello di Salvatore. Lui e Monica appartengono alla stessa generazione, hanno la stessa formazione e sono entrambi disincantati nei confronti dell'arte. Invece, Rossella, alla quale è negata la possibilità di esprimere una sua idea del mondo al presente, riesce ad avere un dialogo solo con i suoi vecchi compagni di viaggio e, nonostante le incomprensioni, alla base del loro rapporto ci sono un "vissuto" comune e un affetto.

De Vincenti: Il termine della difficoltà è centrale nei tuoi film. Difficoltà, metaforicamente, di prendere la parola e non per timidezza o chiusura, ma per l'impossibilità di trovare sintonie. Su questo tema il cinema italiano non lavora molto, bisogna tornare indietro all'incomunicabilità antonioniana per trovare un impegno alto in questo senso. I tuoi personaggi non sono timidi, sono al contrario capacissimi di parlare e comunicare, eppure si arrestano sempre un istante prima per paura che il loro parlare non sia possibile. Vivono in una dimensione di frustrazione continua, segno inequivocabile, mi sembra, del più generale disorientamento patito da tutta una generazione di intellettuali romani.

Garrone: Loro, però, hanno vissuto pienamente la loro vita, almeno rispetto a Salvatore - personaggio vagamente autobiografico - che non riesce a esprimersi e a vivere pienamente. La mia generazione ha più puntelli, più reti.

Sansone: Tutti i personaggi del film si muovono in una dimensione disperante, di lacerante marginalità. La trascorsa generazione ha vissuto pienamente, seppure sconti oggi la pena dell'invisibilità. Noi, sebbene privilegiati, siamo comunque messi ai margini quando non vogliamo o non possiamo stare ai tempi e ai modi proposti dalla contemporaneità. Il senso di vuoto, che sente la nostra generazione è magari meno consapevole, ma esiste.

(L'incontro si è tenuto nel dicembre 2000 presso la libreria Bibli di Roma, nell'ambito dell'iniziativa promossa dalla Biblioteca "Umberto Barbaro", "Gli autori dell'anno").

Trascrizione e sintesi
a cura di Gemma Stornelli


Incontro con Matteo Garrone (2)

(da: Cinemasessanta, n.5/6, settembre/dicembre 2002)

Callisto Cosulich: Quest'anno, contrariamente a quelli passati, il Festival di Cannes è stato ricco di film italiani, tutti a loro modo importanti, e in grado di far breccia sulla critica francese. In questo è stato d'aiuto il clima che si è creato in Italia dopo l'elezione alla Presidenza del Consiglio di Silvio Berlusconi, e l'uso fatto dello spoil system che ha generato un diffuso malumore e un risveglio polemico da parte delle associazioni del cinema italiano. Queste polemiche sono rimbalzate in Francia, inducendo i vicini d'oltralpe a riconsiderare il nostro cinema, per anni ignorato dalla critica. L'effetto è stato immediato e si è cominciato a leggere persino sui Cahiers du cinema, una rivista notoriamente disattenta al nostro cinema, notizie e articoli sui grandi nuovi talenti italiani. D'altronde la selezione di Cannes, assieme a L'imbalsamatore di Garrone, ha visto la presenza nelle diverse sezioni di notevoli film italiani, come L'ora di religione di Marco Bellocchio, Angela di Roberta Torre, Respiro di Emanuele Crialese, film che hanno raccolto grandi consensi da parte di un pubblico selezionato, fatto perlopiù di addetti ai lavori.

In seguito al Festival si è addirittura parlato in Francia della nascita di una nouvelle vague italiana. E qui bisogna intendersi sui termini, perché non è detto che una nouvelle vague corrisponda necessariamente ad una novità estetica, spesso si tratta di un gruppo che segue una certa tendenza nel cinema o che inventa un nuovo modo di produzione autoriale che si ripercuote sull'industria. Noi una vera nouvelle vague in Italia non l'abbiamo mai avuta, o meglio, avremmo potuto averla, verso il '42, quando attorno alla rivista Cinema diretta da Vittorio Mussolini erano confluiti una serie di autori e di giovani critici militanti, come Giuseppe De Santis, Gianni Puccini, Mario Alicata, che chiedevano un tipo di cinema che all'epoca ancora non esisteva. Il Neorealismo però non ha dato seguito a questa tendenza. Sotto la sigla neorealista sono passati parecchi film che avevano in comune lo spirito di fiutare l'aria del tempo, di dare risalto al violento assalto alla realtà borghese, di mettere in scena la drammatica esperienza delle occupazioni, della lotta di liberazione. La novità era ridotta però ai nomi di Rossellini e De Sica che hanno girato dei film che non avevano modelli di riferimento in nessun campo. Le novità di linguaggio sono quindi indipendenti dalle tendenze, ma opera di singoli autori. Per questo dobbiamo stare attenti a parlare di nouvelle vague. Restando sul tema del Neorealismo mi viene da pensare che, al contrario di quanto accadeva agli autori di quella cinematografia, ai giorni nostri la produzione dei giovani registi è spesso ispirata ai fatti di cronaca. Un procedimento che sembra inverso da quello seguito dal Neorealismo dove si inventavano ex novo delle storie, basti per tutti la vicenda di Paisà. Storie che pur non essendo apparse sui giornali erano rese realistiche dal cinema che le trattava in un linguaggio asciutto e cronachistico. Ora invece si parte da notizie di cui si legge sui giornali, di cui è difficile dare una lettura univoca e chiara, e li si trasforma in soggetti che non sono certamente neorealistici o realistici in senso stretto. Penso a film come Angela di Roberta Torre o Respiro di Crialese.

C'è poi un film come L'imbalsamatore che disattende queste regole. Pur nascendo da un fatto vero contiene un linguaggio nuovo nel panorama del cinema italiano, tanto è vero che la prima volta che l'ho visto ho pensato: "Questo è un noir che non somiglia a nessun altro, che non ha modelli predefiniti". Un vero talento inedito. Parlare di noir e far pensare che L'imbalsamatore sia solo un originale film di genere è però una strada sbagliata, perché Garrone con questo film non ha modificato il concetto di cinema acquisito nei suoi primi tre lungometraggi, lo ha solo applicato ad una storia più complicata ed ad un modo diverso di produzione, ma il modo di raccontare resta totalmente opposto a quello dei film di genere.

Si può dire che qui di straordinario c'è un'attenzione al paesaggio che non ha precedenti. La macchina si sofferma sulle ambientazioni facendo passare in secondo piano o addirittura assorbendo i personaggi. L'unico modello che posso rintracciare è quello di Michelangelo Antonioni. I personaggi di Garrone si muovono in questo ambiente come gli animali dello zoo. Definirei Garrone il nostro Abbas Kiarostami. Il suo esordio è stato al Sacher Festival con un corto dal titolo Silhouette sulle prostitute nigeriane a Roma. Il corto venne premiato da Nanni Moretti che, per inciso, ci vide giusto, come per l'anno successivo in cui fece vincere Nina di Maio.

Il secondo film di Garrone, Terra di Mezzo, era un lungometraggio sulla prostituzione extracomunitaria dove inserì delle parti del corto precedente, che inquadrate in quel contesto assumevano un'altra valenza e un altro spessore. Ospiti è il terzo film che estrapola da Terra di Mezzo un episodio e con quei personaggi crea un lungometraggio. E' qui che mi è venuto in mente il parallelo con Kiarostami che usò lo stesso procedimento nella sua celebre trilogia che comincia con Dov'è la casa del mio amico, continua con E la vita continua e si conclude con Sotto gli ulivi. Una costruzione a tappe che li accomuna, insieme ad un certo tipo di linguaggio trasparente che lega i personaggi alla realtà contemporanea come predicava Zavattini. Con Estate romana Garrone abbandona i suoi personaggi precedenti e fa venire fuori l'ambiente in una maniera straordinaria, con una Roma prossima al Giubileo, vera ma inedita, impachettata sotto le impalcature e i teloni.


Matteo Garrone: E' vero quello che dice sull'attenzione che dedico al paesaggio. Non avendo seguito scuole di cinema posso solo dire che il mio cinema è frutto dell'istinto puro. Cerco di capire solo durante la lavorazione se quello che volevo fare è giusto o no, e lo spunto spesso mi è offerto dal paesaggio, centrale già dal mio primo corto. Io di formazione sono un pittore e all'epoca di Silhouette volevo fare dei quadri su dei mattoni e su altri oggetti di recupero. Da alcuni amici mi era stato suggerito di andare in una zona della Colombo dove sarebbe stato facile reperire materiali del genere. Qui sono stato colpito da certe situazioni, da certe atmosfere, e ne è venuto fuori il mio cortometraggio. Un percorso simile agli altri film. Per preparare il mio ultimo lavoro, che probabilmente comincerò a girare in primavera, mi sono trasferito da tre mesi a Vicenza perché è fondamentale per me scrivere nei luoghi dove girerò il film, così da avere già in mente le immagini che poi dovrò raccontare.

Prima di girare L'imbalsamatore avevamo già in mente i luoghi e i protagonisti, così già in fase di sceneggiatura si poteva far entrare nel personaggio qualcosa della persona e viceversa, anche se sul set poi non ho avuto paura di liberarmi della sceneggiatura quando l'ho ritenuto opportuno. Per il mio prossimo film pensate che lo sceneggiatore, Vitaliano Trevisan, sarà anche l'attore protagonista. Assieme a lui e all'attrice abbiamo già cominciato a provare per vedere se le scene funzionavano o meno. Dopo averle incise le abbiamo montate con un registratore per riascoltarle, proprio come se stessimo usando l'avid. Questo penso che sia un passo importante. Un'altra cosa che metto subito in chiaro con i produttori è di concedermi, anche dopo le riprese, la possibilità di rigirare alcune sequenze. Come è successo per L'imbalsamatore, per il quale siamo dovuti tornare sulle locations dopo mesi per rigirare le inquadrature iniziali, visto che i primi risultati, a distanza di alcuni mesi, mi sembravano veramente imbarazzanti.

De L'imbalsamatore va ricordato anche che è il primo film per cui ho richiesto ed ottenuto il fondo di garanzia. Ho sempre avuto paura dei grandi budget dal momento che i miei primi film li ho fatti con una troupe di 4, 5 persone al massimo, quasi tutti amici peraltro, e con un budget complessivo di neanche 500 milioni. Per L'imbalsamatore ho lavorato 8 settimane con una troupe di 35 persone e con un budget di più di 1 miliardo. Tra l'altro per la mia vecchia esperienza di assistente alla regia ho sempre avuto paura delle troupe perché so che appena avvertono la debolezza del regista sono in grado di schiacciarlo e di manovrare la scena. Un'altra cosa particolare è che L'imbalsamatore è un film girato completamente in sequenza e questa credo che sia una cosa fondamentale perché dà agli attori la possibilità di crescere insieme al personaggio, a me quella di non raccontare fino in fondo la storia per lasciarmi aperti altri finali.


Uno spettatore: La storia de L'imbalsamatore prende le mosse da un fatto di cronaca realmente accaduto e noto come il caso del "nano della Stazione Termini". Cosa l'ha attratta di questa storia e come mai ha deciso di trasformarla in un film?


Matteo Garrone: Anche in questo caso sono state le immagini ad avvicinarmi alla storia. Questa ambientazione legata agli animali imbalsamati, questa storia tra un uomo piccolo che sembra quasi un bambino e un ragazzo così alto e bello… In tutto questo c'era una dimensione molto vicina a quella delle fiabe, che è stata rispettata anche nelle scelte scenografiche. Nella scelta degli interni, in quella del villaggio Coppola, sospeso nel tempo, quasi metafisico, c'è un tentativo di reinventare la realtà, di renderla fiabesca. Prima di questo film avevo sempre lavorato su scenografie naturali, mentre per L'imbalsamatore mi sono trovato ad adottare degli importanti interventi strutturali sull'ambiente. Quando, a fine riprese, tutto è stato smontato (la casa di Peppino, il ristorante di Deborah) ci sono rimasto male…non ero abituato. Per quanto riguarda lo script del film c'è da dire che in fase di sceneggiatura abbiamo subito capito che volevamo allontanarci dallo spunto cronachistico della vicenda per ricercare qualcosa d'altro. Per questo nella prima sceneggiatura la figura dell'imbalsamatore era stata trasformata in quella di un chimico che aveva un negozio di animali e si occupava di tagliare la cocaina per la camorra.


Uno spettatore: Il personaggio di Valerio somiglia fisicamente al ragazzo implicato nella vicenda di cronaca. E' intenzionale questa scelta?


Matteo Garrone: Nel caso del personaggio di Valerio ho cercato un ragazzo che fosse bello, perché il film in un certo senso vuole esprimere la ricerca di un ideale di bellezza assoluto. Se avessi trovato un attore giovane, biondo, con gli occhi azzurri non sarebbe importato. L'importante era dare il senso di un oggetto del desiderio. Valerio Foglia Manzillo è di una bellezza evidente, che colpisce. Il fatto che possa ricordare per certi aspetti il ragazzo implicato nella vicenda di cronaca è solo accidentale, un caso, visto che non desideravo mantenere un'aderenza con la cronaca su questi aspetti.


Uno spettatore: Dove è stato girato il film?


Matteo Garrone: La casa di Peppino Profeta è stata costruita a ridosso del villaggio Coppola, in provincia di Caserta; la stanza d'albergo è stata ricostruita interamente in un teatro di posa; l'interno e gli esterni di Cremona, a Cremona. L'imbalsamatore è un film pieno di prime volte per me. A parte la scenografie ricostruite, è stata la prima volta che ho usato il carrello, che prima non capivo bene a cosa servisse, e anche il dolly e lo sky-king. Insomma per me è stato un piccolo colossal. Nel film si nota anche la scelta del grandangolo che ho usato per deformare la realtà. Il cinemascope intendeva dare forza a quei paesaggi che sono protagonisti del film e di permettermi inquadrature con una grande profondità di campo. Per queste caratteristiche L'imbalsamatore è un film che rende molto di più al cinema.


Uno spettatore: Il film è molto giocato sui colori e sulle atmosfere. C'è un tono scuro dominante che accompagna tutta la vicenda di Peppino e Valerio.


Matteo Garrone: In effetti io amo le ombre. Al cinema, al contrario c'è una tendenza diffusa ad illuminare più del dovuto. Personalmente preferisco il gioco delle ombre, mi piace l'idea che non si veda esattamente tutto quello che accade. Spesso però la luminosità dell'immagine varia anche a seconda della proiezione e delle lampade che vengono usate in sala, che si tengono più basse per consumare di meno e questo incupisce ancora di più la proiezione.


Uno spettatore: Ci sono due inquadrature che nel film ho trovato particolarmente enigmatiche: quella della soggettiva dell'uccello in gabbia a inizio film e il lungo camera- car a Cremona avvolta dalla nebbia.


Matteo Garrone: Con la soggettiva, da un lato volevo seminare un senso di morte, visto che si tratta di un uccello spazzino; dall'altro volevo aprire un cerchio che poi si chiude nell'ending: la soggettiva va ad inquadrare Peppino, come nel finale, ma stavolta è lui il mostro. Nel film c'è sempre questo gioco di sguardi, che ho mantenuto anche nel laboratorio di Peppino e nelle soggettive sulle carcasse degli animali imbalsamati. Nella sequenza finale, Peppino viene visto tramite lo sguardo di Valerio, mentre è disteso nella macchina che affonda nel canale, ed è osservato a sua volta come se fosse una delle sue carcasse. E' lui il mostro. All'inizio, al contrario, è Peppino che osserva in soggettiva i suoi animali. Il cameracar racconta invece l'arrivo in soggettiva di Peppino a Cremona che poi si svelerà mano a mano. L'inquadratura è molto lunga perché mi ci ero affezionato. L'ho ripresa una mattina prestissimo mentre ci muovevamo per girare l'ultima scena, quella della macchina che affonda nel canale, e, andando sul set, sono stato colpito da questa alba meravigliosa e ho fatto subito montare la macchina da presa. Così è venuta quell'inquadratura. Quando poi abbiamo girato l'ultima sequenza, Valerio ha avuto un vero momento di commozione e io ho subito stretto il primo piano: quello è un momento vero ed emotivamente forte per lui che si rendeva conto che il film stava finendo. L'inquadratura non era prevista in sceneggiatura; infatti si vede che lui cerca di trattenere il pianto perché non poteva sapere se mi avrebbe fatto piacere o no. Come ho detto non ho problemi, quando serve, a lasciare la sceneggiatura per l'improvvisazione, ma anche se non sono bravo a scrivere ci tengo comunque ad essere presente in questa fase importantissima, perché già da allora mi accorgo se le cose funzionano o no.


Uno spettatore: Nel film hai fatto anche l'operatore di macchina?


Matteo Garrone: Sì, ed il motivo è perché lavorando spesso su dei momenti irripetibili, voglio avere io la responsabilità di coglierli, non posso avere un operatore cui magari sfugge qualcosa e nel momento in cui gliela faccio notare è già tardi. E poi venendo comunque dalla fotografia e della pittura mi piace stare in macchina; è un "reparto" che mi sento di dominare.


Uno spettatore: Nella scena finale mi sembra di leggere una presenza ossessiva di Peppino, anche dopo la sua morte. E' come se la sua ombra non volesse abbandonare quella di Valerio e il riemergere dalle acque andasse inteso in questo senso.


Matteo Garrone: L'immagine finale è certamente onirica, proprio per questo è difficile per me darne una lettura precisa. La sua interpretazione mi sembra comunque interessante, di certo c'è che il personaggio di Peppino Profeta muore e che non ci sarà un Imbalsamatore 2.


Uno spettatore: Il film è stato venduto e distribuito all'estero?


Matteo Garrone: Il film è stato comprato, ma non ancora distribuito, in Francia, in Olanda, Belgio, Lussemburgo e Australia.


Callisto Cosulich: Voglio aggiungere che la distribuzione all'estero dei film italiani è una cosa importantissima perché non ci si può chiudere all'interno del proprio mercato e non è ammissibile che nel giro di sei mesi a Parigi escano cinque film iraniani e magari solo un paio di film italiani, o che in America in tre mesi ne escano solo due, e tra questi Pane e Tulipani, che rappresenta un caso a parte, un successo di pubblico per molti versi inspiegabile, e Il Cerchio di Jafar Panahi che passava in America come film italiano solo perché coprodotto dalla Mikado. Le cose erano molto diverse anni fa. Nel '54 Dino De Laurentis ebbe la geniale intuizione di presentare La Strada di Fellini prima in Francia che in Italia, poi da lì il film è arrivato a prendere anche l'Oscar. Attualmente questo ragionamento non lo più fa nessun produttore italiano perché dopo aver incassato i soldi dal fondo di garanzia, aver trovato il diritto d'antenna per le televisioni e un accordo strategico per l'homevideo, il produttore ci ha già guadagnato in partenza e se ne frega del resto. Un film come L'imbalsamatore la sua vita in sala l'ha fatta, 60/70 mila spettatori sono suppergiù gli stessi dei grandi film neorealisti come Umberto D, Sciuscià, o Francesco giullare di Dio. Il problema è anche quello della distribuzione interna. I film escono tutti i venerdì, in un numero di almeno dieci-dodici alla volta. Inevitabilmente sfuggono persino agli addetti ai lavori, tanto più che oggi molti direttori dei giornali vorrebbero eliminare la critica e lasciare solo lo spazio della cronaca cinematografica e delle minicritiche del venerdì.


Matteo Garrone: Tornando alla distribuzione nelle sale è sbagliato però credere che la colpa sia solo degli esercenti che decidono di non prendere un film. Personalmente ho vissuto l'esperienza tragica di avere un film in una sala sbagliata, dove magari il pubblico era abituato a vedere un film d'azione americano e si trovava invece ad essere spettatore di Terra di mezzo. Un'esperienza che non auguro a nessuno. Bisogna considerare che l'esercente vuole soprattutto guadagnare e non sempre ne fa una questione estetica, ma sceglie, giustamente, il prodotto che dà più garanzie di successo. La colpa in realtà è soprattutto del pubblico, io per primo, che ha molta diffidenza nei confronti del cinema italiano e non rischia: va a vedere i film solo tramite il passaparola. E' lo stesso che accade in Germania. I primi a diffidare del cinema tedesco, come dice Wim Wenders, sono proprio i tedeschi. E lo stesso vale per molti altri paesi.


Uno spettatore: Come vede il futuro del digitale ?


Matteo Garrone: Personalmente sono legato alla pellicola, però non ho nessuna pregiudiziale nei confronti del digitale. Ho visto dei bei film in digitale e può essere un modo intelligente di girare in velocità e leggerezza senza dare troppo nell'occhio, ma rimango dell'idea che se si vuole fare un film con uno stile un po' più tradizionale, bisogna usare la pellicola.

Trascrizione e sintesi
Federico Circi

(L'incontro si è tenuto nel novembre 2002 presso la libreria Bibli di Roma, nell'ambito dell'iniziativa promossa dalla Biblioteca "Umberto Barbaro", "Gli autori dell'anno").



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