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Incontro con Peter Del Monte
(da: Cinemassessanta, n. 2, marzo/aprile 2001)
Gianfranco Cercone: La prima cosa, ovvia,
da dire su Del Monte, è che si tratta di un autore cinematografico,
intendendo per autore qualcosa di più rispetto a un regista,
che può essere talvolta anche soltanto un tecnico della ripresa.
Una delle differenze fra un autore e un regista, è che nelle
opere di un autore si ritrova un'impronta individuale che le fa
riconoscere inconfondibilmente sue.
Ora, questa impronta si riconosce in tutti i film di Del Monte,
da Irene, Irene del 1975 (il suo terzo film, ma definito
dall'autore stesso "un'opera-prima", nel senso che per
la prima volta aveva avuto modo di esprimersi liberamente), fino
a quest'ultimo Controvento, passando per una decina di titoli
(i più noti: Piso pisello (1981) Invito al viaggio
(1982) Piccoli fuochi (1985), Giulia e Giulia (1987),
Compagna di viaggio (1996).
Definire quale sia questa impronta richiederebbe un paziente esame stilistico.
In questa rapida presentazione, mi limiterò a rilevarne qualche connotato,
a partire dalle impressioni sedimentate dalle varie opere di Del Monte, che
abbiamo avuto modo di conoscere nel corso degli anni.
La prima impressione è che nei suoi film si parla poco. O almeno, sulle
parole prevalgono lunghi silenzi. E questi lunghi silenzi sono collocati in
spazi, che il ricordo vuole spesso slargati, a cui sono misteriosamente affini.
Di che spazi si tratta?
I personaggi di Del Monte tendono a viaggiare molto. Viaggia per varie città italiane
il magistrato protagonista di Irene, Irene, ma viaggia anche la ragazza di
Compagna di viaggio seguendo un professore smemorato. E, tuttavia, il viaggio
non vale come occasione per testimoniare paesaggi e realtà geografiche,
perché invece i luoghi attraversati appaiono stranamente sottovuoto,
o desertici, o vagamente astratti, o favolistici; non ci danno una sensazione
di presa diretta su una realtà grezza.
Ora, se uniamo questi due tratti - il silenzio dominante e l'astrattezza dei
luoghi - possiamo circoscrivere un campo tematico investito dal cinema di Del
Monte: e cioè l'interiorità (o lo spirito, o l'anima, che dir
si voglia). Infatti, di chi è proprio il silenzio, la resistenza a parlare?
Dell'introverso, di chi vive a stretto contatto con la propria interiorità,
e in casi patologici, ne è ingolfato, fino a sentirsi impedito di comunicare
con la realtà esterna. E le sporadiche parole che pronuncia, non sono
che l'epifenomeno di un complesso e sofferto mondo intimo.
Ci aiutano a scrutare nel personaggio, gli spazi esterni, che non sono spazi
realistici, ma spazi dell'anima, cioè proiezioni della sua psiche. È stato
notato da molti critici che la Torino grigia e depressa di Controvento è la
manifestazione del malessere dei personaggi.
Ma il cinema di Del Monte presenta vari casi, e più estremi, di contaminazione
fra spazio esterno e realtà interiore. Ad esempio: la Venezia di Giulia & Giulia è il
luogo allucinato dell'allucinazione della protagonista.
Forse una delle sensazioni più caratteristiche che induce questo cinema, è il
leggero stordimento che deriva da questa contaminazione: il mondo esterno è riconoscibile,
non è totalmente trasfigurato dal sogno, ma al tempo stesso è reso
inquietante, o affascinante, o talvolta sgradevole, da una certa tinta che
lo colora e che è il filtro, più o meno pronunciato, dell'interiorità,
o dell'inconscio, del personaggio. Quando questa tinta si fa più manifesta,
si verifica una sospensione enigmatica, non sappiamo più se quanto vediamo è vero,
o è il prodotto di un'allucinazione. Il bambino di Piccoli fuochi uccide
davvero il suo rivale, l'amante della giovane bambinaia?
Qual è il paesaggio interiore che predilige Del Monte?
Focalizzando il discorso su Controvento, dobbiamo rispondere che si
tratta di un'interiorità malata, di una malattia i cui sintomi sono
malessere, sbandamento, una terribile incertezza rispetto a che cosa fare della
propria vita, la difficoltà di amare. Una malattia che accomuna più personaggi.
In Controvento una ragazza, Nina, addirittura si suicida. Ma se il film illustra
i sintomi di queste male, le sue radici sono avvolte nel mistero. La prima
domanda che vorrei rivolgere a Del Monte è allora: non avverte l'esigenza
di indagare più a fondo sulle ragioni del malessere dei suoi personaggi?
Del Monte: Quando parlo dei miei film, divento
uno spettatore forse più attento, ma forse anche più disattento
di altri. Quanto dirò non pretende di essere la verità rispetto
al mio cinema. Le verità, se ci sono, le esprimono i film,
attraverso le emozioni che trasmettono, se le trasmettono. Il
mio cinema, poi, è abbastanza indecifrabile: pertanto,
nel momento in cui si cambia codice di comunicazione, passando
dalle immagini alle parole, inevitabilmente si perde qualcosa.
Venendo a questa richiesta di un'indagine più approfondita sui personaggi,
in senso anche psicologico, la mia è una scelta dichiarata. Il romanzo
letterario indaga sui rapporti causa-effetto riguardo i comportamenti. Proprio
perché i comportamenti in un romanzo hanno meno peso rispetto ai comportamenti
in un film. Un conto è scrivere: "Giovanni alza il bicchiere e
ci versa del vino". Un conto è vedere come Giovanni alza il bicchiere
e come versa il vino: l'immagine ha una pregnanza significativa maggiore. Il
motivo per cui Giovanni alza il bicchiere e versa il vino in quel modo, cinematograficamente
non sento l'esigenza di indagarlo, oppure lo delego fuori campo. Questa, secondo
me, è una delle distinzioni fondamentali tra cinema e letteratura.
Cercone: Lo delega alle riprese dei luoghi.
Che tipo di indicazioni ha dato a Saverio Guarna, il direttore
della fotografia di Controvento?
Del Monte: Io chiedo, generalmente, ai direttori
della fotografia di trasfigurare il reale. E in Italia ultimamente
la nuova generazione dei direttori della fotografia non fa sufficienti
sforzi in questa direzione. Secondo me, sono indietro rispetto
a operatori europei di altra scuola, polacchi e francesi. Forse
perché non sono stimolati dal cinema che fanno, generalmente
commedie realistiche.
Cercone: Tornando al tema del malessere,
noto nel cinema italiano una ricorrenza di psicanalisti o di
psichiatri "malati", che alla fine, vengono smascherati
e rivelano di star male quasi quanto i loro pazienti. La protagonista
del suo film, Clara, mi sembra rientrare in questa tendenza.
Del Monte: Il mio non voleva essere, naturalmente,
un atto d'accusa nei confronti della psicanalisi, non ho gli
strumenti per affrontare questa materia. Clara è una donna
che si definirebbe oggi "politicamente corretta"; si
presenta, all'inizio del film, apparentemente senza incrinature,
rigorosa nei confronti della vita e del proprio lavoro. Ma, alla
fine, "sbraga" professionalmente, cioè si porta
a casa una paziente, una bambina, e di fronte a lei scoppia a
piangere. E il film termina qui, come sulla soglia di una rinascita,
proprio perché si stabilisce per la prima volta un contatto
con la paziente, data fino ad allora per irrecuperabile.
Allora, senza fare discorsi specifici sulla psicanalisi, volevo dire che spesso
la coerenza e l'ossessività etica nascondono una forma di nevrosi. Cioè,
nascondono la paura di abbandonarsi all'incognita della vita.
Cercone: A Clara, lei contrappone un
personaggio positivo, quello di Leo, un infermiere, un "marginale",
forse uno sbandato, ma disponibile e generoso.
Del Monte: Leo è un personaggio che
non si pone problemi comportamentali, che non è sovrastrutturato,
ma è diretto, non a caso esercita un inspiegabile richiamo
su questa donna, perché va a scovare una parte di lei
inesplorata. A una seconda lettura, il film si può interpretare
come un teatrino dell'inconscio. I personaggi sono proiezioni
delle zone rimosse di Clara. Però, stando a un livello
più realistico e psicologico, Leonardo è un personaggio
maschile "perdente", secondo i modelli vigenti oggi
nella nostra società; ma secondo me, grazie a questa sua
generosità e bontà primarie, è un personaggio
libero. E virile. Certo, non corrisponde agli stereotipi da sottocultura
maschile italiana. Ma è virile perché è un
uomo che non ha paura di toccare le cose. Anche le donne.
Una spettatrice: Ho notato in Leo un
estremo bisogno di aiutare gli altri. Mi chiedo: non è un
modo per fuggire da sé stessi? Ho avuto l'impressione
che Leo alla fine abbandoni Clara, perché sa che lei è una
donna forte e che può sopravvivere anche senza di lui.
Del Monte: Leo, secondo me non è forte, è debole.
Non a caso nel finale, dopo che Nina, la sorella di Clara, con
la quale ha avuto un breve rapporto, muore, prova il bisogno
vorace di accompagnarsi immediatamente con un'altra persona. È un
uomo, a cui è necessario il calore degli altri, ma che
questo calore lo sa anche dare.
Uno spettatore: Perché Leo è un
infermiere?
Del Monte: Beh, a un certo punto, io e le
mie due sceneggiatrici, ci siamo detti: "che gli facciamo
fare?", e l'infermiere ci è sembrata la scelta giusta.
Non perché l'infermiere aiuta gli altri. Ma perché mi
piaceva immaginarlo in camice, e anche perché come degente,
in passato, ho avuto modo di conoscere infermieri con un loro
segreto mondo interiore. Ma non ho voluto mostrare Leo in rapporto
ad altri pazienti, per evitare una descrizione sociale, che non
mi interessa.
Cercone: Lei collabora, già da Compagna
di viaggio, con due sceneggiatrici che vengono dalla scuola
di Leo Benvenuti, Claudia Sbarigia e Gloria Malatesta. Può parlarci
del suo rapporto con loro?
Del Monte: Abbiamo un rapporto conflittuale,
ma non troppo. Io sono spesso grato a loro perché hanno
un buon rapporto con il quotidiano, sanno come la gente parla,
mentre io tendo spesso all'astratto. Così, nei momenti
più felici, definiamo contesti realistici, con qualche
possibilità di deragliamento.
Nel caso di Controvento, avevano scritto un piccolo soggetto, che poi
abbiamo elaborato insieme. Non ricordo bene il progetto originario. Credo che,
all'inizio, Nina non fosse molto presente. E paradossalmente loro hanno contribuito
più sul maschile e io più sul femminile.
Uno spettatore: Perché preferisce
raccontare personaggi femminili?
Del Monte: Non mi è molto chiaro.
Di primo acchito, direi: perché metto in gioco la mia
femminilità. Ma questo, riflettendoci, è anche
un po' ipocrita. In effetti, non saprei girare film senza donne.
Sarebbe come girare un film senza luce. Tra un regista e le sue
attrici si crea un rapporto indefinibile, in qualche modo erotico,
ma del tutto casto, che si riflette nel film, e che a me piace,
mi fa bene.
Comunque, non amo quei registi - uomini - che hanno verso il femminile un rapporto
idealizzato; dove il femminile rappresenta un momento di riscatto, di nostalgia.
Il femminile, proprio perché è un mondo complesso va preso di
petto, senza aver paura di affrontarne gli aspetti sgradevoli, aggressivi,
spietati. E in questo senso, il grande maestro resta Bergman.
Antonio Medici: Oltre Bergman, forse
Antonioni.
Del Monte: Senz'altro Antonioni: quando
mi sono avvicinato al cinema, è stato uno dei miei riferimenti,
che ho cercato strada facendo di negare, come sono soliti fare
i figli contro i padri. Ma quell'eredità mi resta.
Cercone: Gli attori dei suoi film recitano
in genere molto bene. Come ottiene questi risultati? In particolare,
ho molto apprezzato l'interpretazione di Michel Piccoli in Compagna
di viaggio. Può parlarci del suo lavoro con lui?
Del Monte: Io non sempre ho avuto una giusta
attenzione verso gli attori. All'inizio, quando mi avvicinavo
al cinema, ero più interessato all'aspetto compositivo
dell'immagine. Nel corso degli anni, il mio interesse si è accentrato
sui personaggi, e di conseguenza, credo di essere diventato finalmente
un buon direttore di attori. Non posso vantare alcun metodo.
Generalmente, sul set, non do spiegazioni di tipo psicologico,
perché non le so dare e ho anche paura di sbagliare. Non
do alcuna indicazione inizialmente. Lascio fare, voglio vedere
come gli attori si rapportano ai personaggi, e poi aggiusto.
Certo è che sono molto presente, però credo all'apporto
creativo che ogni attore può dare al personaggio. E non
voglio a priori mortificarlo e chiuderlo in un'idea comportamentale
preconcetta. Con Piccoli si giocava. Avevamo un rapporto ludico,
come fra due bambini. All'inizio del film, non sapevamo che cosa
lui portasse nella valigia, e di volta in volta la mattina gli
portavo io degli oggettini che avevo trovato in casa. Lui una
volta mi ha portato delle pantofole.
È stato un insegnamento caro, quello di Piccoli. Io ho a volte tendenze
un po' tragiche. E invece nella leggerezza c'è posto anche per la profondità.
Stefano Coccia: Come si è sintonizzato
a una personalità così singolare, così esuberante
a tratti come Asia Argento, protagonista di Compagna di
viaggio?
Del Monte: Ho scelto Asia perché avevo
bisogno di una ragazza giovane, come tante, ma anche trasgressiva,
in apparenza irriverente; e che, al tempo stesso, fosse capace
di trepidazione spirituale. È una dote rara nelle giovani
attrici, che riconosco in Asia.
Una spettatrice: Non le piacerebbe girare
una commedia brillante?
Del Monte: Potrei forse condurla in porto,
ma senza dire nulla di nuovo. Ognuno deve seguire le proprie
inclinazioni. Ci sono registi che appena nascono hanno una identità precisa,
che poi perseguono per tutto il resto della loro carriera, specie
se hanno avuto successo sin dal primo film. Altri, come me, questa
identità la ricercano nel corso degli anni. Io sono arrivato
all'amara conclusione che le mie inclinazioni più autentiche
mi conducono lontano dal botteghino. Per cui mi considero una
specie di sopravvissuto, di superstite che testimonia di un cinema
che una volta esisteva in Italia, aveva pieno riconoscimento,
negli anni Sessanta - Settanta, e che adesso sta talmente ai
margini che rischia di essere sopraffatto. Lo dico con lucidità,
senza alcun piagnisteo. Costituisco una piccola resistenza. Perché è in
atto una guerra, senza clamori, però c'è. Non è una
guerra che riguarda soltanto il cinema. Riguarda l'Italia, il
processo di degrado culturale che questo paese sta attraversando,
complici le dirigenze televisive, la politica culturale della
Rai, la mancata identità di una politica culturale di
sinistra, l'inesistenza di una politica culturale di destra (che
in Francia esiste). E allora ci sono nuclei di resistenza a tutto
ciò, in tutti i campi, anche nell'impiegato di banca che
svolge il suo lavoro in un certo modo.
Cercone: Nel campo della politica culturale,
lei come ritiene che si dovrebbe intervenire riguardo al cinema
italiano?
Del Monte: Anche qui eviterei piagnistei.
La famosa legge sul cinema è una legge che funziona, perché i
film vengono scelti sulla base dell'esame della sceneggiatura;
scelta compiuta per la prima volta da persone non coinvolte in
un "conflitto di interessi", come si suol dire, perché sono
fuori dalle corporazioni cinematografiche, non sono né produttori,
né critici; sono letterati. E il meccanismo di finanziamento
funziona. Non funziona, invece, la visibilità dei film.
Non è un problema soltanto di distribuzione. Il problema è il
pubblico, l'Italia, a cui non interessano più certe testimonianze.
È una difficoltà che investe tutta l'Europa: là dove l'America
entra con più prepotenza, l'identità nazionale viene schiacciata.
Spesso tendiamo a proporre all'estero film che rappresentano un'Italia ormai
inesistente, proprio perché quell'Italia, nella memoria di chi vive
in America, serba ancora un suo fascino. Questo è un gioco che alla
lunga si paga, perché, continuando così, si penalizza la credibilità dell'Italia
come paese contemporaneo, e si fa dell'Italia un museo, cioè un luogo
dove andare in vacanza. Bisogna fare uno sforzo per far conoscere cosa è l'Italia
oggi, come sono riusciti a farlo le cinematografie asiatiche rispetto ai propri
paesi.
Non abbiamo realtà drammaturgicamente impressionanti da mostrare, come
potrebbe averne un paese africano; ma c'è una drammaticità nascosta,
più sottopelle, che va comunque indagata, che si presta meno, certo,
a speculazioni di tipo giornalistico, che però esiste e ci riguarda
tutti.
Cercone: Cosa ne pensa di una certa tendenza "civile" che
si va riaffermando nel cinema italiano?
Del Monte: Io non credo al cinema civile.
Si possono fare bellissimi film su argomenti di cronaca, di attualità:
mi è piaciuto molto I cento passi. Ma questi film
sono autentici se raccontano qualcosa che il giornalismo non
sa raccontare. Un esempio per tutti: Rosi, che è ritenuto
un regista impegnato. Secondo me, è un grande regista
perché ci ha raccontato qualcosa del potere, che il giornalismo
non ha saputo cogliere. E ha saputo raccontare il potere, perché lo
ama. Lo ama, dico, in senso alto, shakespeariano. Per fare un
film, bisogna amare qualcosa. Non basta l'indignazione.
(L'incontro si è svolto nel dicembre
2000 presso la libreria Bibli di Roma, nell'ambito dell'iniziativa,
promossa dalla Biblioteca "Umberto Barbaro", "Gli
autori dell'anno").
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