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Incontro con Guido Chiesa

(da: Cinemassessanta, n. 2, marzo/aprile 2001)

Antonio Medici: Guido Chiesa, approdato con Il partigiano Johnny al suo terzo lungometraggio, ha alle spalle un percorso estremamente ricco di esperienze e di iniziative. Nato a Cambiano, in Piemonte, Chiesa ha studiato presso l'Università di Torino, laureandosi con Gianni Rondolino in Storia e Critica del Cinema; già intorno ai ventidue, ventitré anni comincia la sua esperienza di realizzazione di brevi cortometraggi, sintomatica forse del desiderio di uscire dalla provincia, desiderio che trova espressione anche in una fortissima passione per la musica, in particolare per la musica rock.
Vi è poi, nella prima metà degli anni Ottanta, l'esperienza importante della partenza per gli Stati Uniti, che lo porterà a lavorare con diversi registi americani, tra i quali Jim Jarmusch e Michael Cimino. Nel frattempo continuano le collaborazioni con riviste italiane di musica italiane come Fare musica e Rumore. In America Guido Chiesa realizza anche alcuni cortometraggi, scrive soggetti, e continua a lavorare all'idea di portare sul grande schermo la letteratura di Fenoglio, pensando in un primo momento alla trasposizione di quattro suoi racconti. Il primo lungometraggio è Il caso Martello, del 1991, un esordio promettente che viene apprezzato e premiato con la "grolla d'oro" per la migliore opera-prima a St. Vincent. È un film già controtendenza, presentando una storia legata al mondo partigiano e rivelando al tempo stesso una precisa volontà di confrontarsi con il presente.
Il film ha una forte struttura di genere, a parer mio; si sviluppa un'indagine, una sorta di "giallo", che vede coinvolto un giovane assicuratore, una tipica figura di questi nostri ultimi anni, un giovane in carriera orientato su determinati valori. Il personaggio in questione deve risolvere per la propria assicurazione un problema relativo a una vecchia pratica rimasta in sospeso per cinquant'anni, pratica legata al nome di Antonio Martello, per l'appunto un partigiano. L'indagine, e il conseguente contatto con un mondo inizialmente molto lontano dal suo, generano in lui lente ma evidenti trasformazioni.
Quindi, non soltanto si delinea un discorso di recupero di memoria storica, ma nel cinema di Chiesa a emergere è soprattutto una tensione etica rivolta alla consapevolezza delle scelte di campo.
Il secondo lungometraggio è Babylon, del 1994, un film circolato soprattutto nel circuito underground, trattandosi di un'opera fortemente sperimentale. Il film è ambientato a Torino, se ricordo bene, e anche qui un possibile discorso sui generi cinematografici si lega strettamente a una sperimentazione linguistica portata avanti con decisione e alla cui origine si pone una riflessione forte sulle strutture narrative.
Il cinema di Guido Chiesa esprime costantemente la volontà di misurarsi sul piano della forma e della ricerca linguistica. Il partigiano Johnny ha poi la valenza di un film che, attraverso la vicenda resistenziale, riporta l'attenzione sulle importanti questioni dell'etica e della responsabilità , un film che pone una serie di questioni legate fortemente all'oggi, per cui Johnny, grazie al suo rigore morale, al suo impegno a dire di no fino in fondo, si rivela un possibile e significativo termine di confronto rispetto alla società attuale così diversamente orientata.
L'opera di Chiesa si rapporta a una vastità di problematiche molto interessanti, se si pensa anche solo alla confusione recata nel dibattito storiografico da certe pericolose spinte revisionistiche. Mi riferisco, ovviamente, non a un sano processo di rilettura degli eventi con il supporto di nuove categorie di pensiero, ma al tentativo di piegare la storia a interessi più immediati di natura politica.
Tornando al percorso creativo di Guido Chiesa, vorrei ricordare, accanto ai lungometraggi di finzione, la produzione documentaristica del regista. Oltre a 25 Aprile una memoria inquieta, che risale al 1994, vi è Materiale resistente , realizzato insieme a Daniele Ferrario e imperniato su un concerto (giovani gruppi italiani), di musica rock e di appartenenti alla scena hip-hop, che reinterpretano alla loro maniera le canzoni tradizionali della Resistenza.
Chiesa e Ferrario non si limitano a filmare lo svolgersi del concerto, ma s'interrogano sull'antifascismo oggi, inserendo nel loro lavoro interviste fatte ai giovani. In collaborazione con Daniele Vicari è stato invece realizzato Non mi basta mai, che racconta la storia di cinque operai della Fiat di Torino coinvolti nel 1980 nell'occupazione della stessa azienda torinese, una dura lotta culminata con la cocente sconfitta operaia che tanto avrebbe pesato nell'immediato futuro. Tornando a Il partigiano Johnny, vorrei chiudere la mia introduzione, proponendo una traccia per eventuali considerazioni.
L'utilizzo nel film di determinate inquadrature, il ricorso alla soggettiva in momenti per Johnny particolarmente significativi, sembra suggerire la tematizzazione di un discorso che si ripropone costantemente all'interno della pellicola: invero siamo in presenza di una storia fortemente soggettivizzata dallo sguardo di Johnny, una storia nella quale allo stesso tempo Johnny agisce da protagonista, con assoluta fermezza. Lo sguardo di Johnny in un certo senso assolutizza gli eventi, conferendo a questi eventi una dimensione mitica. D'altro canto, non è solamente la voce fuori campo a suggerire i presupposti per una riflessione marcatamente soggettiva sugli eventi, ma è l'insieme delle scelte formali di Chiesa a fornire le credenziali di un punto di vista più complesso e articolato di Johnny sull'esperienza da lui vissuta.
Data la ricchezza del film, tante sono le possibilità di analisi e di confronto, sia rispetto alle tematiche ricorrenti nella letteratura di Fenoglio, sia rispetto ai punti più accesi del dibattito storiografico. Lascio quindi la parola a Guido Chiesa.

Guido Chiesa: Nell'attesa delle prime domande, che attendo con curiosità, vorrei dire qualche parola sul livello di coinvolgimento che mi ha portato alla realizzazione de Il partigiano Johnny, un'ossessione che si rispecchia in quella altrettanto viva delle tante persone, tra quelle coinvolte in diverso modo nel progetto, il cui percorso personale si era comunque già spinto in direzione di Fenoglio e della Resistenza. Mi riferisco al fatto che la società che ha prodotto il film, la Fandango, avventurandosi nella distribuzione de Il partigiano Johnny, non compie un'esperienza facile, andando incontro a rischi seri come quello di non trovare le sale per l'uscita, e quanto è successo a Roma è emblematico di tale situazione.
Il film è uscito in due sale di Cecchi Gori, che in quel momento non aveva altre uscite importanti, mentre i cosiddetti distributori di cinema indipendenti, che qui a Roma controllano un efficiente circuito di sale, non hanno evidentemente gradito l'inserirsi, a livello di distribuzione, di un nuovo interlocutore come la Fandango, facendo pensare con il loro rifiuto a una forma di ostracismo.
Quanto alla Fandango, la cosa importante che volevo dire è che, oltre a produrre e distribuire cinema, è anche una casa editrice, che pubblica soprattutto romanzi di letteratura anglosassone, ma che ogni tanto cura la pubblicazione di libri limitrofi all'uscita di determinati film. In questo caso, ha fatto uscire un libro intitolato Il partigiano Fenoglio, un testo che contiene studi di natura differente; spicca al suo interno un saggio biografico scritto da Piero Negri, che ricostruisce i movimenti e le esperienze vissute da Fenoglio durante la guerra di Resistenza; vi è poi un secondo saggio di Luca Bufano, che cerca di sistematizzare tutto ciò che Fenoglio ha scritto sulla resistenza; un terzo contributo viene da uno storico, Pierfrancesco Manca, che cerca di raccontare il contributo dato da Fenoglio al lavoro degli storici. Claudio Pavone, a esempio, autore nel 1991 di un testo, Una guerra civile, che ha suscitato grande dibattito e ha segnato una svolta nella storiografia italiana sulla Resistenza, ha citato spesso gli scritti di Fenoglio come se si trattasse di un documento storico.
Il libro pubblicato dalla Fandango contiene infine un'interessante raccolta di fotografie, immagini di Fenoglio stesso, ma anche di altre figure di combattenti che operarono al suo fianco e che hanno ispirato direttamente alcuni personaggi presenti ne Il partigiano Johnny. A queste foto si vanno ad aggiungere quelle scattate sul nostro set da De Luigi, uno dei più bravi tra i giovani fotografi specializzati nel raccontare la lavorazione di un film con stile personale.
Ho presentato alcuni argomenti in qualche modo limitrofi alla realizzazione de Il partigiano Johnny, spero utili per ogni ulteriore approfondimento di chi è interessato alla figura di Fenoglio, prima ancora che al film.

Gianfranco Cercone: A quale pubblico voleva rivolgersi con questo film: a un pubblico elitario, interessato ai fatti della Resistenza o a un pubblico più ampio, magari da provocare proponendo un tema cui si sente estraneo?

Guido Chiesa: È una questione complessa. Tendenzialmente vorrei fare film che possano vedere tutti, pur avendo presenti le categorie di spettatori che più facilmente si possono accostare alla visione di un film come Il partigiano Johnny. In prima battuta, penso ai purtroppo non tantissimi spettatori che in Italia sono ancora interessati all'argomento della Resistenza, e tra questi risalta, ovviamente, la condizione di chi si reca al cinema conoscendo già il romanzo di Fenoglio. Rispetto al particolare punto di vista di questi spettatori, noi abbiamo cercato di fare un film che fosse il più vicino possibile allo spirito del romanzo, ma non alla lettera. Rispetto a quella parte del pubblico, il cui interesse è ancora orientato sui fatti della Resistenza, cerco di pormi in una posizione dialettica. Sono, infatti, scettico nei confronti di quei film che parlano ai convertiti, mostrando soltanto ciò che tali spettatori si aspettano di vedersi rappresentare. Nel mio caso, non sarebbe stato molto produttivo descrivere la Resistenza come un unico, compatto episodio di eroismo collettivo; una prospettiva di questo genere non mette in moto niente di rilevante, mentre a me interessava che il film facesse riflettere su argomenti che paiono sedimentati e che invece sedimentati non sono.
Vi è poi un terzo pubblico, che è quello che a noi, in fin dei conti, interessava più di tutti, e che costituisce la vera scommessa del film, in quanto risulta il più difficile da catturare. Mi riferisco al pubblico di coloro i quali non ne sanno niente, non hanno idee preconcette sull'argomento, e piuttosto tendono a rigettarlo considerandolo con il fastidio da loro generalmente riservato all'approfondimento di ogni argomento storico.
Questa fascia di spettatori coincide, in particolare, con coloro che hanno meno di venticinque anni. È importante, e mi sono reso conto proprio portando film come Il caso Martello nelle scuole, o durante incontri con il pubblico, di come negli ultimi dieci anni il già tenue filo della memoria che ci lega a quei giorni si vada sempre più perdendo. A grande fatica la scuola tenta, a volte, di colmare un vuoto profondo che parte dalla mancanza di una memoria, di una cultura orale che tengano a contatto esperienze di generazioni diverse, e la speranza non è certo che un singolo film cambi lo stato delle cose; ma tramite Il partigiano Johnny abbiamo voluto riproporre a questo pubblico il difficile argomento dell'eticità delle scelte e della responsabilità individuale nella complessità e non nell'univocità della storia partigiana.

Antonio Medici: A proposito della necessità di raggiungere un pubblico un po' più ampio, e delle possibili modalità di approccio a questo obiettivo, mi sembra che voi abbiate scelto una struttura narrativa fortemente connotata dall'azione, e questa presenza forte di scene di guerra, di combattimento, fa pensare in qualche modo al genere. Vi è una scelta di fondo a favore di tale costruzione drammaturgica, accanto alla volontà di mettere in rilievo Johnny come eroe individuale, all'interno di una storia che da sempre si presta a essere raccontata come fenomeno collettivo, corale?

Guido Chiesa: In parte tutto ciò è vero, in parte no. La forte componente d'azione è effettivamente un modo di proporre problematiche e situazioni differenti rispetto a un intero filone di film dedicati alla Resistenza, in cui l'aspetto politico-ideologico ha una netta prevalenza su quello militare. A esempio, è stato difficile per gli scenotecnici anche soltanto reperire armi sparanti dell'epoca. Quanto al fatto che Johnny si proponga come eroe individuale, tale connotazione dovrebbe spingere verso una possibile identificazione di quei ragazzi per i quali questo filo della memoria, di cui parlavamo, si è interrotto.
D'altra parte, però, tutto questo non va visto soltanto nella prospettiva di un possibile avvicinamento a tale pubblico; sono scelte che valgono anche per un altro tipo di pubblico, per coloro cioè che, spinti da un loro interesse già consolidato, comunque sarebbero andati a vedere Il partigiano Johnny, e che abbiamo ribattezzato i convertiti. Il fatto di farne un film di guerra, nel quale l'azione è un elemento preponderante, crea una contrapposizione diretta con un certo tipo di lettura della Resistenza esclusivamente legata a una griglia politico-ideologica, anche se poi questa diversa chiave di lettura implica ugualmente un particolare approccio politico-ideologico.

Tommaso Casini: Vorrei fare una domanda di carattere tecnico: mi interesserebbe sapere qualcosa sulla scelta cromatica, sulla pasta fotografica del film, e in particolare sulla dominanza di sfumature grigio-verdi, fra l'altro molto belle, ma anche molto pesanti sul piano della percezione.

Guido Chiesa: A noi che stavamo facendo il film era abbastanza evidente, sin dal momento in cui lo stavamo scrivendo, che dovevano dare a Il partigiano Johnny un colore, nel senso più ampio del termine, dalle tinte tragiche, dure. Si sentiva questa necessità per due ragioni: la prima perché raccontavamo una certa Italia, un'Italia povera, buia, un'Italia in cui non c'è la luce e, per certi aspetti, manca il colore. La seconda è perché raccontiamo una storia in cui gli aspetti complessi della guerra, e quindi probabilmente anche dell'esistenza, sono al centro della vicenda stessa. Io non cerco di comunicare verità assolute sulla Resistenza, ma credo che esistano tante verità, e credo che la grandezza di quella esperienza sia anche una complessità troppo spesso taciuta.
L'uso del colore e lo stile di riprese sicuramente hanno a che fare con il desiderio di creare uno sfondo adatto a esprimere un certo tipo di necessità; ma a livello stilistico, e a livello di eventuali citazioni, alcuni giornali hanno scritto che tra i miei punti di riferimento ci sarebbe La sottile linea rossa di Terence Malick, e questo francamente non corrisponde almeno alle nostre intenzioni. Vi sono altre coscienti citazioni, possibili influenze di carattere iconografico che hanno guidato i risultati cromatici del film. A esempio, un punto di riferimento è stato Caravaggio, allorché mi sono reso conto che il tipo di luce e il tipo di chiaroscuro, che si vedono sui suoi quadri, sarebbero stati per noi una stupenda guida. Da discussioni orientate in tal senso tra me e il direttore della fotografia è nata la decisione di usare principalmente luci in campo, come rivela la presenza di candele, o di luci che comunque giustificassero un'illuminazione così bassa, fioca, e il buio sulle pareti.

Antonio Medici: Fare un film sulla Resistenza come Il partigiano Johnny porta necessariamente a muoversi su un campo minato. Valutando gli incontri con il pubblico, gli interventi sui giornali, le differenti reazioni della critica, è soddisfatto di come il film è stato accolto?

Guido Chiesa: Se questa domanda mi fosse stata posta all'indomani della presentazione del film al festival di Venezia, avrei sicuramente risposto di no. Il nove settembre, terminato il festival, ero molto amareggiato perché, al di là di quello che poteva essere l'apprezzamento o meno dell'opera, mi sono trovato a confrontarmi con domande di giornalisti che non parlavano mai del film, che parlavano di Fenoglio senza averlo letto, o della Resistenza proponendo interrogativi frivoli, o semplicemente ridicoli, tipo "per chi voterebbe Johnny alle prossime elezioni?". A tre mesi di distanza da quei momenti do una risposta completamente diversa. Prima cosa, e tutto ciò è molto curioso, molti di quei critici che a Venezia si erano espressi negativamente, o semplicemente non si erano espressi, hanno ribaltato in positivo il loro giudizio sul film. Quindi la critica ha in parte cambiato di segno, e sono scesi in campo alcuni studiosi e illustri conoscitori dell'opera di Fenoglio, nonché alcuni storici di rilievo, che hanno dato il loro imprimatur. A ciò si aggiunge che il pubblico complessivamente sembra aver fornito una risposta positiva.

Mino Argentieri: Gli esterni, i luoghi ripresi nel film, sono gli stessi descritti nel libro? Del resto le Langhe, che per noi sono un mito legato alla letteratura di Pavese e di Fenoglio, sono spazi cinematograficamente poco esplorati. A prima vista sembrerebbero quasi zone poco adatte con il loro paesaggio collinare a ospitare operazioni di guerriglia, ma come stanno effettivamente le cose?

Guido Chiesa: La scelta di determinate zone delle Langhe è dovuta a verosimiglianza storica, ma anche a necessità pratiche. Volevo evitare comunque di seguire il consiglio di alcuni di trasferire il set in Bulgaria, dove avremmo trovato quanto ci serviva a costi molto bassi. Entrando in particolari, la parte in cui Johnny sta con i Rossi, la formazione del Biondo, è stata girata in una valle vicino ad Acqui Terme, dove, essendo più poveri, hanno anche costruito di meno e fatto minore scempio del paesaggio. Per quanto riguarda il fatto se si tratti o no dei luoghi reali, posso dire che sono soprattutto gli esterni a essere esterni reali. A esempio, quella valletta percorsa da un fiumiciattolo, nella quale Johnny durante i rastrellamenti si ritrova più volte con alcuni compagni, è un luogo descritto nel romanzo, il cosiddetto Vallone Sant'Elena. Mentre sono rimasti molti esterni del romanzo, gli interni non sono quasi mai luoghi in cui realmente è stata ambientata la vicenda. Si tratta per lo più di luoghi reali dove noi siamo entrati apportando qualche piccolo intervento, a eccezione della cascina dove si trova la padrona con la cagna, che è stata ricostruita. Questa maniacalità ci ha portati addirittura a ricostruire il barcone, la zattera sul fiume che da molti anni non era più in servizio, essendo venuta meno l'utilità. Ora non so quale impressione dia realmente il film, ma posso assicurare che si tratta sì di colline, ma di colline piuttosto ripide, scoscese. La stessa espressione Langhe significa "lingue", lingue di terra che tendono tutte a finire in quei canaloni, in quelle forre che rendono difficilmente penetrabile il territorio a chi non lo conosca a fondo. Tra le ragioni per cui il movimento partigiano nelle Langhe è stato particolarmente sviluppato vi è anche la natura del territorio, oltre a una generale ostilità dei contadini della zona al regime fascista, per quanto l'atteggiamento nei confronti dei partigiani si sia invece rivelato assolutamente ambivalente, vivendo di fasi alterne.

(L'incontro si è svolto nel dicembre 2000, presso la libreria Bibli di Roma, nell'ambito dell'iniziativa "Gli autori dell'anno").


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