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INCONTRO CON ANTONIO CAPUANO
Cinemassessanta, n. 3, maggio/giugno 2002
Mino Argentieri - Nell'organizzare gli incontri di quest'anno
noi di "Cinemasessanta" abbiamo fermato la nostra attenzione
su tre pellicole che abbiamo ritenuto tra le più significative
di questa stagione, anche se si tratta di film che nelle sale non
sempre hanno ricevuto l'accoglienza che meritavano. Ma anche questo
può essere un incentivo a proseguire in una certa direzione,
nella quale andiamo sempre più caratterizzandoci.
A questo punto introdurrei il regista nostro ospite, Antonio Capuano,
affidandone la presentazione a Dario Minutolo, segretario generale
dell'Associazione per gli Studi e le Ricerche della Storia del Cinema,
nonché collaboratore di "Cinemasessanta" e di altre
riviste.
Dario Minutolo - Non ci sono molti dubbi riguardo al fatto
che uno dei fenomeni più significativi del cinema italiano
dell'ultimo decennio sia stato l'affermarsi, abbastanza veloce ma
non privo di polemiche, di un gruppo di registi napoletani. Ricordando
un'espressione come "nuovo cinema napoletano" si entra
subito nel cuore della polemica. È quasi inevitabile che
alla stampa venga voglia di usare definizioni come questa. Dopo
un episodio importante come l' uscita de I vesuviani si è
infatti moltiplicato il numero delle voci che in ambito giornalistico
e critico si sono fatte sentire. C'è chi ha parlato di un
non meglio identificato e poco chiaro "sud-espressionismo",
come ha fatto Farinotti in alcune schede del suo dizionario riferite
agli autori napoletani. Qualche anno prima de I vesuviani,
"Cinemasessanta" con discreta lungimiranza e maggiore
pacatezza aveva definito il fenomeno che si stava profilando "laboratorio
napoletano", evidenziando giustamente una realtà meno
compatta rispetto a quanto suggerito dalle altre definizioni che
via via sono state date. "Laboratorio napoletano" va bene,
perché rimanda al concetto di bottega, alla contaminazione
dei linguaggi artistici. Questo gruppo di artisti napoletani non
era una comunità, ma un insieme che, tramite l'operato dei
singoli, si è espresso all'interno di una stessa koiné,
di una stessa tradizione culturale, che ognuno poi ha cercato di
rivitalizzare con la propria cifra stilistica. Diciamo che, per
quanto riguarda quella che potremmo considerare la prima onda, si
avvertiva un sentire comune, l'esigenza di ripresentare Napoli al
di là dei luoghi comuni, al di là dei cliché
nei quali era degradata progressivamente.
Questo è stato fatto da ciascuno dei registi napoletani che
a partire grosso modo dal '90 hanno esordito nel cinema, ognuno
con delle cifre stilistiche assolutamente personali; questa è
la ragione per cui il fenomeno ha una valenza indiscutibilmente
nazionale. Si è trattato di unità produttive che già
operavano, e che hanno garantito un modo di produzione diverso da
quello nazionale, costituendo tra l'altro, se vogliamo dare un senso
a questo piccolo rilievo, il gruppo localmente determinato più
numeroso. Questo aspetto recupera inoltre una vecchia tradizione
napoletana; con l'eccezione del periodo fascista, noto per l'ostracismo
al regionalismo e soprattutto al realismo troppo crudo dei napoletani,
Napoli è sempre stata una delle capitali produttive cinematografiche
italiane. Il recente lavoro di riproposizione dell'immagine e della
storia di Napoli affonda le radici nella tradizione culturale napoletana.
I registi di cui parliamo, ognuno nella sua maniera, lavorano tutti
su una nuova topografia della città: non ci sono le solite
immagini da cartolina, i posti che si è abituati a vedere.
Di Martone, ad esempio, si può dire che abbia il dolly bloccato
su Piazza del Plebiscito, che già era luogo rappresentativo
dell'era Bassolino, venendosi così a trovare bloccata anche
la classica visione del golfo. Antonio Capuano, dal canto suo, si
muove sempre nel centro storico, ammesso che Napoli abbia un centro.
Nei suoi film è presente tutta un'area assolutamente napoletana,
la più antica, la più radicale, ma anche quella meno
utilizzata. Capuano recupera anche tutti i tratti universalistici
che hanno caratterizzato la cultura napoletana, che è fatta
di contaminazioni, di linguaggi diversi, linguaggi sia artistici
che quotidiani, legati alle svariate dominazioni succedutesi.
La cifra stilistica di Capuano è quella di un cinema molto
intenso, con una voglia di narrare che rimanda tutto sommato al
noir, specie se si considera i primi film, che guardano al modello
americano di una narrazione efficace, senza troppe divagazioni.
Si tratta sempre di vicende ben inserite in un contesto, dove, perfettamente
in simbiosi con la tradizione napoletana, hanno un'importanza fondamentale
i corpi.
Capuano ha una cura direi quasi pasoliniana nella composizione dei
corpi e nel rapporto con gli attori. È per certi versi un
continuo corpo a corpo. Luna rossa, per chi lo ha visto,
è un esempio emblematico, costruito su un piano americano
perenne; anche quando si è in campo aperto, si chiude sull'attore
come se si realizzasse tramite la m.d.p. un corpo a corpo tra il
regista e l'attore stesso. Di Pasolini, a tratti, Capuano ha un
estro surreale, come rivelano Pallottole su Mater Dei e molti
degli episodi di Polvere di Napoli. Sostanzialmente, i generi
toccati dal cinema di Capuano sono questi: il noir, il cinema di
denuncia sociale e quella che riconosciamo come una vena commedica
strana, ironica, surreale, una vena emersa proprio con Pallottole
su Mater Dei, un corto delizioso che credo possa essere stato
visto solo in televisione, su Tele Più.
Al pubblico la cosa dovrebbe risultare evidente, grazie all'episodio
da lui diretto de I vesuviani; avendo subìto però
I vesuviani tutte le conseguenze della baraonda veneziana,
l'accoglienza del film da parte del pubblico è stata molto
condizionata. Lo stesso Capuano non è d'accordo con me, ma
la mia opinione personale sul film nel suo complesso è molto
migliore di quanto generalmente è stato detto. Tra i pochi
ad averlo sostenuto, andando a vedere, ci siamo stati io, Mino Argentieri
e Giorgio De Vincenti: caso strano, ma in tutti e tre i casi parliamo
di persone legate a "Cinemasessanta". Per lo spettatore
normalmente abituato a Vito e gli altri e a Pianese Nunzio,14
anni a maggio , l'episodio Sofialorén è
una sorpresa, quasi una slapstick; verrebbe la tentazione di chiamarlo
omaggio, ma poi giustamente gli autori si infastidiscono di fronte
alla pretesa dei critici di cercare continuamente ascendenze e filiazioni
varie.
La versione più compiuta di questo aspetto commedico è
senz'altro Polvere di Napoli, ma qui, quanto all'accoglienza
ricevuta, è stata forse colpa dell'autore rimandare nel titolo
al film di De Sica...
Antonio Capuano - Vi interrompo per dire che la gente solitamente
lo chiama Polvere di stelle o L'oro di Napoli, ma
a chiamarlo Polvere di Napoli, non ci prova nisciuno...
Dario Minutolo - Anche questi sono archetipi che interferiscono
con l'immaginario e le fantasie degli spettatori. Rimanendo su Polvere
di Napoli, è evidente lo spiazzamento nell'uso del paesaggio;
in questo caso abbiamo Pompei, ed altri luoghi in definitiva poco
utilizzati nel cinema. Quanto a corpi anche qui non si scherza;
almeno nell'episodio dei due fidanzati e nell'episodio di Orlando
a Pozzuoli, c'è questa peripateticità dei personaggi,
che è un'altra caratteristica del cinema di Capuano e in
buona parte anche degli altri napoletani. Non si sa se è
un camminare stanziale, o se è un camminare che produce,
come pare a volte. Luna rossa si riconnette invece ai primi
due film, al filone originario con cui si è presentato Capuano
nel panorama cinematografico, segnalatosi con film intensi, cupi,
di forte denuncia. Qui viene fuori un altro problema: quando si
affronta il problema della mafia o, come in questo caso, della camorra,
trattando i personaggi in un certo modo, si rischia di passare per
giustificazionisti. In realtà bisogna pure descrivere il
fenomeno per quello che è. Nel caso di Luna rossa
la descrizione è forte, sentita, vissuta, evidenziata con
un tocco in più che ne dimostra ulteriormente la napoletanità:
questo tocco è il richiamo alla tragedia greca. Come saprete,
la vicenda del clan camorristico di Luna rossa è in
parte ricalcata sull'Orestea. Questo è un altro dei
modi di mettere in scena quell'universalità caratteristica
della cultura di Napoli, una Napoli che anche nelle radici greche
può trovare molte spiegazioni della propria vita cittadina
e della propria produzione culturale. A questo punto vorrei chiedere
direttamente a Capuano come va inteso l'uso della tragedia greca
per raccontare una faida di potere collocata all'interno di un clan.
Antonio Capuano - In effetti, io non sono il primo, né
sarò l'ultimo, ad usare questi grandi racconti archetipici
per mettere in scena il presente. A volte si fa pure il contrario:
si usa il presente per riproporre racconti archetipici. Sono tantissimi
gli esempi di queste contaminazioni. L'ultimo, non so se lo avete
visto, è il film di Ripstein, che ha fatto una Medea a Città
del Messico molto bella, molto cupa, veramente molto Medea, potendo
dire così. Quella è la rappresentazione del moderno
attraverso una struttura archetipica, per la quale siamo portati
inevitabilmente a fare una considerazione, anche se molto banale
e meccanica, che tra di noi esiste ancora il problema di Medea,
il problema di Edipo, il problema di Antigone, il problema di Clitennestra,
così come esiste ancora Amleto tra di noi. Voglio dire che
nei racconti di questi grandi tragici emergono problematiche non
risolte, ancora valide ai giorni nostri come problematiche esistenziali,
almeno fino a quando qualcosa non cambierà radicalmente.
Alcuni passaggi della nostra vita, del nostro relazionarci, sono
ancora inchiodati a questi problemi mai totalmente compresi che
ci affliggono, senza che ci sia da parte nostra la possibilità
di eliminarli definitivamente, avendone sviluppato pienamente i
significati. Forse ci sarà in futuro una società organizzata
diversamente, neanche io so come, magari con figli nati in provetta
e senza le famiglie tradizionalmente intese. Può darsi che
non sentiremo più parlare di Medea; così Giasone potrà
farsi i cazzi suoi , e Medea nun se ne fotte; Edipo, il figlio,
non avrà più amore per la mamma; oppure, se ci saranno
queste relazioni, saranno relazioni tutte esterne, e quindi non
intrise di questa grave problematicità di cui oggi sentiamo
il peso. Ma oggi questa condizione ci riguarda tutti, dagli Australiani
ai Napoletani, agli Americani, ai Bosniaci, perché è
la condizione stessa del nascere e del vivere. Chiaramente, poi,
essendo io napoletano, e quindi legato culturalmente in qualche
modo alla Grecia, mi sento particolarmente vicino ad una certa visione
della drammaturgia. Dovevo quindi raccontare gli aspetti interni
di questa famiglia, ma volevo raccontare ciò non attraverso
uno schema abitudinario, realistico, da legare all'idea di un tran
tran quotidiano, perché in definitiva mi sarebbe sembrato
qualcosa di superficiale e fastidioso. Volevo al contrario che il
racconto di questa famiglia si trasformasse in un racconto esemplare,
per cui ho pensato di usare questa struttura drammaturgica presa
direttamente dalla grande tragedia, dalla tragedia greca, per conferire
un tono di astrattezza e sublimazione. Tra i miei obiettivi rientrava
che le conversazioni dei componenti di questa famiglia fossero intessute
di una forma di dialogo molto più intensa, un dialogo insomma
che sfiorasse alcuni canoni estetici, raggiungendo esiti più
alti. Lo potete capire bene se avete contrabbando, come piace dire
a me, con la tragedia greca, ma anche con i grandi tragici moderni,
da O'Neill fino a Pasolini. Quando si organizzano i dialoghi per
le grandi tragedie c'è, improvvisamente, un salto, o una
curiosa fuga in organizzazioni sintattiche particolari. Di questo
avevo bisogno per creare uno scarto rispetto ad una realtà
che mi sembrava non potesse servire a realizzare un film così
intenso e forte come volevo; poi non so se ci sono riuscito.
Dario Minutolo - Sicuramente questi elementi hanno funzionato,
almeno secondo me, ed è un discorso ulteriormente rafforzato
dalla scelta di far prevalere gli interni, con la m.d.p. sempre
incollata ai corpi. Sono tutte scelte indovinate, o per meglio dire
azzeccate, visto che il napoletano in certi casi rende di più.
Antonio Capuano - È così. Io certamente volevo
stare con la macchina sugli interpreti, volevo addirittura leggere
dentro di loro. Quando tu guardi gli occhi di un attore, cazzo,
è una cosa diversa dal fare un totalino. Io qui, in questo
film, avevo bisogno proprio di stare addosso, di vedere la pelle,
di vedere le salive; doveva essere, cioè, un film molto corporale,
molto aderente alla vita materiale, perché io considero che
la vita materiale sia una cosa straordinaria, una cosa che tutti
quanti noi, nonostante le nostre arie da intellettuali, da sofisti,
da snob, riconosciamo come talmente forte da non poterla trascendere.
Quindi, volevo anche raccontare i corpi, i loro umori, il loro sangue,
le loro stesse feci, se ci fosse stato bisogno. Non vi scandalizzate:
io volevo fare un film veramente duro, e poi nun me ne fottìa
un granché di appartenere ad un panorama cinematografico
commestibile, gastronomico. Intendevo veramente costruire una scatola
nera e dura, profonda, una specie di pozzo dove volevo scendere
e non far respirare il pubblico, mettendolo di fronte a delle grosse
e sublimi tragedie.
Dario Minutolo - Sono contento di essere stato breve nella
mia introduzione, perché come vedete Antonio Capuano sa spiegarsi
perfettamente. Questa è la cifra stilistica cui io mi riferisco
facendo il nome di Pasolini. Il contributo di Capuano al cinema
napoletano, o per meglio dire al cinema nazionale, è proprio
quello di aver recuperato non i modi di Pasolini, perché
ognuno fa cinema a modo suo, ma molte delle intenzioni e molte delle
aggressioni pasoliniane di cui sentivamo decisamente la mancanza.
Potremmo cogliere l'occasione per chiedere ad un attore di Luna
rossa qui presente, Antonino Iuorio, come ci si sente ad avere
qualcuno con la m.d.p. che è sempre lì e non ti molla
un attimo.
Antonio Capuano - Ribadisco che la sensazione di stare addosso
a un attore è importante, e qui con Antonino abbiamo un campione
molto rappresentativo, una presenza corporea forte e importante
nel film. Sicuramente lui può raccontarvi come si sente uno
quando la m.d.p. lo indaga.
Antonino Iuorio - Questo è il secondo film che faccio
con Capuano. In Polvere di Napoli il rapporto, se possibile,
era ancora più duro, più diretto, per via di un vero
e proprio problema di tecnica di ripresa cinematografica, sul quale
vorrei dire l'essenziale senza dilungarmi eccessivamente.
Ormai l'attore è in grado di avvertire il girare della m.d.p.,
il rumore che fa, specialmente perché negli anni passati
noi, che tentiamo di fare un cinema non proprio commerciale, abbiamo
imparato una cosa: ci hanno insegnato, ci hanno fatto comprendere
che la pellicola costa, e quindi in un certo senso si rimane condizionati
dal rapporto con la macchina. Prima era diverso, erano due piani
separati. Adesso invece c'è un grande coinvolgimento, anche
perché questo è veramente un tipo di cinema che si
fa e si vive tutti quanti insieme. In Polvere di Napoli Antonio
girava lunghi piani-sequenza: non amava interrompere una scena.
Per cogliere ciò che a lui interessava, andava di servizio
da un primo piano all'altro senza staccare, e questa era una cosa
che ho subìto molto, e da cui ho anche imparato molto; ho
appreso così il tentativo estremo, vitale, di tenere dentro
un'unica azione, che non risultasse da fotogrammi separati, tutti
gli umori, tutti i climi, tutte le tensioni che offriva la storia.
Arrivando a questa recente collaborazione, ho constatato che Capuano
aveva subìto un'evoluzione, essendo lui nel profondo un uomo
di cinema, un artista. Adesso fatico a trovare le parole, ma mi
viene da dire che di fronte a lui si ha un'impressione particolare,
quella di trovarsi davanti a un work in progress reale: sul set
quotidianamente si verifica un'accelerazione, per cui lui, guardandoti
recitare, capisce determinate cose, te le comunica dopo una prima
rielaborazione, e insieme si va avanti costruendo qualcosa di nuovo.
In Luna rossa si avvertiva quindi un'esigenza diversa, quella
di comprimere l'immagine. Ti confrontavi con questa macchina che
ti veniva addosso, nella quale tu spesso finivi quasi per inciampare,
avvertendo costantemente la difficoltà dei movimenti in spazi,
in ambienti che uno sarebbe tentato di definire non claustrofobici,
ma "claustrofilici". C'era il piacere di sentirsi dentro
ad una scatola, la voglia di lavorare nel piano americano, soprattutto
perché non sentivi sul set quello che, in realtà,
era alla fine un percorso vero e proprio studiato con cura da Antonio;
sentivi la quotidianità, il lavoro che nasceva, si sviluppava,
andava avanti, per cui alla fine non ti dovevi più preoccupare
del sudore, della pancia, del foruncolo, del graffio. Tutto faceva
storia. Lui non voleva che ci si truccasse. Molto spesso ho assistito
a "struccaggi" immediati, fatti da lui, con asciugamani,
di attrici che a volte si aggrappavano alla certezza di voler essere
truccate in un certo modo. Lui arrivava con un panno, un asciugamano,
e cancellava i segni del lavoro del truccatore. Dunque siamo stati
tutti esposti, ma la bellezza di tutto ciò, almeno per quello
che sono riuscito a percepire io, è che tutti si fidavano
di Antonio. Io stesso ho lavorato in grande armonia, esponendomi,
esponendo il mio corpo che non è proprio un bel corpo, volendo.
Però lui mi ha insegnato che tutto sommato il mio corpo raccontava,
ed è quello che gli interessava realmente. Mi ricordo di
una scena in cui eravamo col perizoma, ed era piuttosto imbarazzante,
per esempio, fare scene di sesso abbastanza realistiche, dove perlomeno
i corpi si incontravano, sistemati con quelle cose addosso piuttosto
ridicole. Così a un certo punto queste cose che erano d'impaccio
ce le siamo levate, con una grande naturalezza, svolgendosi anche
queste situazioni in maniera molto armonica. L'armonia che c'è
in questo film secondo me è restituita in qualche modo dal
prodotto finale. Questo è un film rispetto al quale io, da
spettatore, ogni volta che lo rivedo o che riprendo in mano l'Orestea,
preferisco concentrarmi su un personaggio. Perché una cosa
è leggere l'opera nella sua interezza, una cosa è
entrare nello spirito di un personaggio alla volta. Questo mio approccio
vale sia per il film, sia per l'opera di Eschilo, che amo molto
e che in questi anni ho riletto spesso. Quanto al film, ogni volta
che lo rivedo, entro nella logica di un personaggio, ne scopro dei
dettagli, seguo le sue dinamiche. Luna rossa costituisce
per me un esercizio continuo: sono andato da poco a vederlo per
la decima volta, e pensavo che avrei finito per andarmene. Invece
sono rimasto fino alla fine, trovando ancora cose di cui non mi
ero accorto, possibili letture. Quando accade questo, per un attore
va bene anche considerarsi, come diceva Capuano prima, un corpo.
Perché no? Se il risultato è così sublime,
è giusto che l'idea di essere un corpo faccia parte integrante
del percorso.
Antonio Capuano - Aspettando qualche domanda dal pubblico,
vorrei approfittarne per salutare Carlo Pontesilli, che è
l'editore delle musiche, e dire due parole a questo proposito. Innanzitutto,
e questo lo dico per biechi motivi pubblicitari, segnalo l'uscita
di un doppio CD con la colonna sonora del film. Pe' fa nu poco e'
promozione, diciamo che si tratta di un doppio CD al prezzo di uno.
Io l'ho sentito l'altra sera, e mi ha fatto un effetto ancora più
bello di come sono le musiche che sentite nel film. È vero
quello che state pensando, lo dico anche un po' per vendervelo,
però voi fidatevi. Per esempio, c'è una canzone di
Raiss degli Almamegretta, Astrigneme, che a me piace da matti,
e di cui è stata fatta una versione particolare, veramente
bella, con un inizio dove si sentono i colpi di sassi che cadono
nell'acqua, e una voce poi che viene su e sembra arrivare da lontano.
Ma tornando alle parole che ha usato Antonino Iuorio a proposito
di Luna rossa, c'è da dire che a noi interessa il
cinema nella maniera in cui il colore interessa a chi dipinge, o
la scrittura a chi scrive. Questo va al di là di ogni discorso
sulla camorra, sui contenuti puri e semplici della rappresentazione,
sulla sociologia più o meno bassa che si fa intorno a un
film e che ci trasforma tutti quanti in sociologi o in antropologi.
Mi pare che così le qualità più autentiche
del cinema si stiano un poco perdendo; voglio dire che se dovessi
indicare qualità cinematografiche in film italiani oggi in
circolazione, non saprei bene cosa segnalare. Oggi si privilegia
la sceneggiatura, il plot, al punto che le scelte che fanno poi
la qualità del cinema, scelte che riguardano i rapporti tra
l'immagine e il suono, l'importanza dei silenzi, o cose di questo
genere, finiscono per essere poco o niente considerate.
Un cinema che presenti queste qualità io non lo incontro
quasi più; esistono al massimo sceneggiature più o
meno funzionanti, ma quanto al cinema inteso come corpo, inteso
come materia, inteso come luce, inteso come movimento di macchina,
mi pare che ci stiamo lentamente disabituando. A me sembra che specialmente
qui da noi tale mancanza si avverta sempre di più; mi viene
spontaneo chiedere ai critici e agli esperti qui presenti se è
una sensazione soltanto mia o se è un qualcosa avvertito
anche da altri.
Mino Argentieri - Capuano tocca sicuramente un tasto giusto;
anche se le perplessità sopravvengono non solo per film italiani,
ma anche per film di altri paesi. Spesso e volentieri, vedendo film
di questo tipo, ci si finisce per domandare perché l'autore
non abbia scritto una commedia, o un lavoro da destinare alla televisione.
C'è quindi un deperimento dell'elemento visivo. Si riscontra
un prevalere della parola, mezzo con il quale bisogna fare sempre
i conti, ma che non può essere da solo la chiave di volta
di un racconto cinematografico. È difficile dare così,
su due piedi, una risposta ad un quesito così complesso.
Fondamentalmente il cinema è una scoperta che avviene attraverso
gli occhi, seppure con il supporto importante del suono e della
parola. La forza del Neorealismo, negli anni del dopoguerra, non
era soltanto nel tipo di realtà che veniva portata sullo
schermo, ma era anche la forza aggressiva, creativa e inventiva
dell'occhio che scopriva e riportava sullo schermo cose che non
si erano mai viste. Adesso spesso al cinema si va per sentire. Lo
stesso Scene da un matrimonio del grande Bergman fa sembrare
più importante il fatto di ascoltare attentamente quello
che si dice, rispetto al tenere lo sguardo puntato sullo schermo.
Però Scene da un matrimonio nasce come pezzo televisivo,
quindi non poteva essere diversamente da ciò che è.
Invece è purtroppo vero che oggi i film nascono pensando
fondamentalmente alla televisione, al pubblico televisivo, a uno
spazio diffusionale e ad una vita che sarà molto più
lunga di quella offerta dai circuiti cinematografici. Questo, secondo
me, influisce profondamente, così come influisce il problema
dei costi, perché più ci si muove, più si esce
dalla prospettiva del cinema girato tra camera e cucina, più
i costi lievitano e nascono complicazioni.
Antonio Capuano - Sì, ma noi non ne possiamo più
di queste costrizioni. Noi autori ci siamo rotti le palle di questa
trafila per cui passiamo da un produttore, il quale per prima cosa
va ad offrire il film alla Medusa, o alla Rai, e, se il film a questi
signori non piace perché non rientra nei canoni della televisione,
va a finire che il film non si fa proprio.
A questo punto io reagisco da estremista, dico che è meglio
che di film non se ne facciano più. Che le sale rimangano
vuote, dico io! Ma che è 'sta fregola de fa' a televisione.
Noi vogliamo fare il cinema, e dobbiamo fare il cinema! A me di
un cinema che sia televisione, nun me ne fotte proprio!
Mino Argentieri - Noi siamo d'accordo con te, però
al di là di questi fattori materiali, di queste condizioni
oggettive che influiscono tantissimo sul lavoro creativo, vi è
però anche un punto debole negli stessi autori, cioè
che gli autori troppo spesso mancano di quella passione, di quella
aggressività che ti porta comunque ad avere un'ottica. Ce
l'aveva Rossellini, ce l'avevano alcuni registi del Neorealismo.
Non ce l'aveva per esempio Visconti, che si presentava con un occhio
di altra natura, l'occhio di un esteta, di un uomo raffinato che
nello spettacolo cinematografico vedeva la sintesi delle arti di
vari filoni culturali, e che quindi non aveva quel palpito che troviamo
nel primo Rossellini, e che Rossellini perderà nel corso
degli anni, arrivando pure lui a fare un cinema da studio; se pensiamo
a Il generale Della Rovere, era già qualcosa di molto
diverso rispetto a prima.
Tornando ad oggi, c'è anche questa mancanza, l'incapacità
di raccontare le nostre città con vigore.
Antonio Capuano - Ma è chiaro che il problema è
anche, e soprattutto, degli autori. È il problema di chi
si mette l'anima in pace finendo a fare filmetti buoni per la televisione.
Ovviamente, quelli che rischiano lo fanno sul serio, perché
chi ha il coraggio di fare i film contro la televisione subisce
le angherie di chiunque. Spesso, poi, quelli che vengono considerati
i nostri maestri recenti sono in realtà delle chiaviche.
Da una parte ci sono quelli il cui cinema è ancora "vivo",
quelli da cui veramente si può apprendere qualcosa d'importante,
come nel caso di Francesco Rosi. Invece il nostro cinema si è
talmente rimpicciolito, che abbiamo scambiato per nostri maestri
gente che non vale assolutamente nulla.
Dario Minutolo - E chi sarebbero questi di cui tu parli?
Antonio Capuano - È sufficiente pensare al cinema
romano, al cinema che si fa qui a Roma. Potrei raccontare questo,
di quando tempo fa sono stato a Belgrado, dove erano state scelte
alcune pellicole per rappresentare il cinema italiano. Guarda caso,
si trattava di tre film napoletani. Del resto, questo corrisponde
in pieno a quanto detto prima sul cinema napoletano: queste pellicole,
Vito e gli altri, Morte di un matematico napoletano
e Libera sono tre autentici segni cinematografici, non tre
film carini, scritti bene, con una sceneggiatura funzionale. Questi
invece erano tre segni forti di cinema, come forse oggi può
essere considerato il film di Vincenzo Marra. fatemi il nome di
un cosiddetto cineasta romano che lasci un segno altrettanto forte!
Dario Minutolo - Io non vorrei entrare nel merito di queste
polemiche. Quello che volevo sottolineare era soltanto la forza
d'urto di questa presenza napoletana nel nostro cinema. Il caso
poi vuole che questi autori, quasi a offrire un ulteriore pretesto
ai dibattiti giornalistici, finiscano per uscire in blocco, ogni
paio d'anni, con le nuove opere di quattro o cinque di loro.
Curiosamente è successo così in passato, suscitando
polemiche e prese di posizione, mentre quest'anno, essendosi creata
in pratica una situazione simile, i giornalisti sembrano aver preso
sotto gamba queste uscite.
Questa scarsa attenzione si è manifestata per diversi autori:
per Antonietta De Lillo, che ha portato il suo film a Locarno; per
Vincenzo Terracciano, che è stato costretto per l'ennesima
volta ad andare prima nei festival minori in Francia, raccogliendo
premi a tutto spiano, ma senza poter uscire in Italia; per Marrazzo,
il cui primo film, molto bello, presentato anni fa a Venezia, non
è stato più visto in giro, mentre quest'anno il nuovo
film ha vinto premi a Sulmona. Comunque, è vero il fatto
che il cinema napoletano all'estero è tornato ad essere una
delle realtà maggiormente prese in considerazione.
Antonino Iuorio - Mi sento anch'io d'intervenire, perché
non penso che Capuano parlasse di un cinema regionale identificato,
parlando del cinema romano. Io ritengo che si riferisse a questa
ignobile cordata di registi di regime che continuano ad essere molto
considerati. Oggi anche secondo me c'è la tendenza, ben radicata
nella sfera del cinema d'autore, a voler condurre in una direzione
che interessa solo ad alcuni. Tutti gli altri, siano essi napoletani,
friulani, baresi, non rientrano in quello che a volte è addirittura
un salotto, un salotto di gente che compie un percorso diverso,
se vogliamo anche rispettabile, ma che ha il torto d'imporsi su
ogni possibile discorso di pluralità.
A me non infastidisce il percorso che fanno gli altri, anche qualora
a me non interessi, perché il mio principio generale è
che ognuno abbia facoltà di esprimersi. Spesso però
accade che, o si è nella linea di quanto in quel momento
viene portato avanti, o si è completamente fuori, il che
significa essere boicottati. È questo che io, da artista,
da attore, ritengo insopportabile, auspicando in qualche modo una
rifondazione. In questo io mi sento impegnato personalmente, avendo
scelto di fare determinate cose e di seguire nel mio lavoro persone
che più di altre stimo, comprendo, apprezzo, e con le quali
sono solidale.
Per questo mi dispiace profondamente vedere ignorate le cose che
io faccio con fatica, o che altri fanno con fatica, e ne approfitto
per dire che il già citato film di Marra anche a me è
piaciuto moltissimo. Ma occorre specificare che io sto parlando
non di cose che vengono ignorate perché siano brutte o per
assenza di valore, ma perché non sono in sintonia con certi
discorsi di potere, con l'orientamento di altri progetti che godono
di tutte le attenzioni.
Dario Minutolo - Vorrei precisare una cosa, che quando io
parlo di napoletani, non lo dico per una questione localistica;
so che ci sono state e continuano ad esserci uscite di registi di
differente provenienza e dotati di un minimo di visione cinematografica.
Il problema è soltanto che i napoletani ormai hanno fatto
massa, hanno raggiunto un numero cospicuo. Accanto a questo va notato
che è una caratteristica tipica di questi autori fare un
cinema assolutamente non televisivo, provocatorio, aggressivo. È
insomma un cinema che non nasce appositamente per essere rinchiuso
nella scatola televisiva. Anche il piano americano continuo di Luna
rossa, pur trattandosi di un film girato prevalentemente in
interni, visto in televisione non funzionerebbe nella stessa maniera.
Il problema degli altri non è soltanto un problema strutturale,
industriale, al quale noi fra l'altro abbiamo spianato la strada,
lasciando che si facesse di tutto perché alla fine la televisione
fosse un referente fondamentale per mandare avanti la produzione
cinematografica. Non è soltanto questo; è che i registi
si sono auto-educati a pensare di fare cinema televisivo, e questo
andazzo si è manifestato già dagli anni '80.
Tra tanti registi e piccoli movimenti che si sono adeguati a una
simile tendenza, è facile quindi individuare una proposta
differente. Parliamo di una realtà, quella di questi cineasti
napoletani, che si è presentata squadernando le posizioni
precedentemente createsi, e la cui forza è quella di riuscire
a prodursi comunque, in un modo o nell'altro. I napoletani riescono
a fare i loro film perché non sono del tutto dipendenti da
Roma. Accanto alle figure di registi esordienti, si sono formati
tecnici, montatori, direttori della fotografia, costumisti, che
hanno favorito la nascita di un altro sistema di produzione. Quanto
alla stampa, ad eccezione dei film di Martone, in passato presi
di mira più facilmente di altri, e ad eccezione de I vesuviani,
che io difendo nonostante lo stesso Capuano non lo gradisca un granché,
troverete quasi sempre buone, se non ottime recensioni dei film
napoletani. Soltanto che questi film non si vedono. A Venezia Luna
rossa è stato elogiato in molti articoli, ma questo non
è servito al film per avere una vita normale nelle sale.
C'è una sorta di nemesi che si abbatte su quelli come loro
che stanno ai margini, che vogliono fare cinema "indipendente",
fuori dalle logiche imposte dalla televisione.
Antonio Capuano - Mi era facile immaginare già dalla
scrittura del soggetto che destino avrebbe potuto avere Luna
rossa; anzi secondo me ha raccolto più di quanto potevo
aspettarmi. Io già nello scrivere il soggetto sapevo di fare
un film impopolare, perché conoscendo l'accoglienza riservata
ad un certo tipo di cinematografia ci si può rendere conto
di quello cui si va incontro. È così, ed è
addirittura giusto che sia così. Il mio appello a non dimenticarci
del cinema vuole pertanto raggiungere quelli che sono veramente
affezionati al cinema, quelli che frequentano biblioteche come questa
e vogliono vedere un certo tipo di film. Così come l'appello
è rivolto anche a quei cosiddetti colleghi ai quali sembra
non interessare più di tanto l'oggetto del nostro lavoro,
il cinema.
Una spettatrice - A questo punto vorrei sapere qualche nome,
tra quelli di quei cineasti romani che secondo lei non fanno cinema.
E poi mi piacerebbe che lei dicesse qualcosa in più su Rosi,
visto che a me un film come Le mani sulla città sembra
dipendere troppo dai fatti di cronaca dell'epoca.
Antonio Capuano - A me non va di mettermi a fare esempi,
e comunque questa produzione romana corrente è qualcosa che
tutti quanti noi abbiamo sotto gli occhi. È giusto che ci
siano quelle che io chiamo storielle commestibili, gastronomiche,
soltanto che bisogna avere l'accortezza di non spacciarle per cinema
d'autore. Sono film che nei festival dovrebbero rimanere lontani
dai premi, mentre invece alcuni di questi signori quando non vengono
premiati hanno pure il coraggio d'incazzarsi. Voi volevate qualche
nome di chi non fa vero cinema, e a questo punto, anche a dimostrazione
del fatto che non ce l'ho contro una particolare regione o città,
faccio da napoletano il nome di Salemme, che fra l'altro è
pure un amico. Diciamo che è un mio amico e ne voglio parlare
male. Ecco, Salemme non ha niente a che vedere con il cinema, e
neanche lo pretende; almeno è uno consapevole.
Quanto invece ho sentito dire prima a proposito di Le mani sulla
città non lo condivido assolutamente. Già dai
titoli d'inizio è un film che presenta sublimazioni fortissime,
dimostrando di essere vero cinema. Non c'entra il legame con la
cronaca del momento, sono altre le cose importanti; come dicevo
vi è qualcosa di esemplare già nell'inizio, in come
è vista la città a partire dai titoli di testa. Quello
che colpisce è come viene inquadrata la città di Napoli,
con gli zoom stretti sui palazzi dall'alto e con altre scelte di
ripresa. È chiaro che ci fa vedere i palazzi di Napoli, ma
l'importante è il modo in cui ce li fa vedere, il taglio
che viene scelto.
Uno spettatore - Per dire queste cose ci vuole un'educazione
cinematografica, che il pubblico magari non ha.
Antonio Capuano - Io non lo so di preciso cosa ci vuole.
Ci vorrà forse un corredo di sensibilità di cui io
non ho l'elenco, perché se ci fosse questo elenco, magari
ognuno di noi le potrebbe acquisire senza difficoltà. È
il mistero della cosiddetta poesia. La poesia stessa non ha un corredo
di elementi. A pensare diversamente può essere giusto qualche
scrittore capace solo di mistificazioni, capace insomma di dire
che si può imparare ad essere scrittori. Io dico di no, che
tutt'al più si può imparare a scrivere una frase in
corretto italiano, ma poi c'è un salto, c'è da realizzare
una costruzione sintattica che sostenga la storia che si vuole scrivere.
Ma per fare questo ci vuole il talento, che è la prima cosa
e del quale si può dire che o ci sta, o non ci sta.
Antonio Medici - Io con la mia domanda volevo tornare su
Luna rossa e riallacciarmi al discorso iniziale sugli archetipi.
Volevo sapere se la scelta di raccontare il mondo della criminalità
organizzata non derivasse anche dalla volontà di distanziarsi
dai modi cronachistici con cui viene raccontata solitamente la violenza,
anche barbarica, che c'è dietro questo mondo. Volevo chiedere
quindi se al di là della questione degli archetipi, delle
situazioni che si ripetono nel corso della storia umana, non vi
è anche il bisogno di sottrarsi al modo corrente di raccontare
queste vicende.
Antonio Capuano - È verissimo. Si è sentita
principalmente una particolare necessità, quella di dare
una organizzazione, una struttura architettonica che non fosse quella
dell'immediato realismo, per far diventare il film più forte,
più lancinante, sempre qualora arrivi nella maniera giusta
allo spettatore.
Dario Minutolo - Come nella vera tragedia greca gli eventi
più cruenti, in luogo del coro che non c'è, avvengono
regolarmente fuori scena. Non c'è mai un'adesione all'estetica
cinematografica dell'omicidio, ma ancora di meno alla spettacolarizzazione
da telegiornale. Luna rossa è un esempio di stilemi
cinematografici che si susseguono efficacemente: l'uso del fuori
campo, ad esempio, che paradossalmente in alcuni momenti dà
ancora più risalto a ciò che sappiamo accadere ai
lati dell'inquadratura. Avvertiamo un maggiore risalto perché
la situazione diventa ancora più angosciante, più
forte la percezione della violenza. Anche le musiche di cui parlavamo
contribuiscono in maniera notevole. Il film, molto parlato, ha un
inizio che parlato non lo è quasi per niente, a scatti, con
spazio ai corpi degli attori e a certe ritmiche. Due canzoni attraggono
particolarmente l'attenzione: c'è il brano Luna rossa,
che si sente solo nel momento topico del film, e poi c'è
Astrigneme, di cui ha già parlato Capuano. In alcuni
momenti, in corrispondenza di un autentico crescendo tragico, c'è
invece l'accompagnamento di musiche molto appropriate, molto ritmiche,
che io non so individuare se siano rock, house o qualcos'altro ancora.
Anzi, forse è il momento giusto perché sia io a chiedere
delucidazioni.
Antonio Capuano - Può darsi che tu intenda in particolare
la musica sui funerali, o la musica sulle cavalcate. In ogni caso,
per parlare di questi momenti strumentali, è necessario ricordare
la genesi di una preziosa collaborazione. Pensate che la mia idea
iniziale andava addirittura in direzione di un film senza musiche.
Figuratevi dove andava a finire un film così, in una tomba
probabilmente. La realtà è che volevo fare un film
ancora più nero e ancora più duro, quindi senza musiche.
Invece Carlo, che vi ho presentato prima e che all'epoca ancora
non conoscevo, ha avuto occasione di leggere la sceneggiatura, e
poi l'ha passata a Raiss degli Almamegretta. Io mi sentivo preso
in contropiede dalla proposta che la sceneggiatura passasse in mano
a Raiss, proprio perché la loro musica già mi piaceva,
e se mi fossero piaciute anche queste composizioni mi sarei trovato
veramente di fronte al problema di inserirle. Raiss ha letto la
sceneggiatura, quindi, e gli è piaciuta talmente tanto da
chiamarmi addirittura mentre stava fuori dall'Italia, per dirmi:
"Antò, io aggio scritto 'na canzone". A me questa
cosa pareva proprio un miracolo, che lui avesse scritto una canzone
alla sola lettura. Dopo quindici giorni, tornando insieme agli altri
del gruppo da Londra, mi ha portato due CD, con un'ora e mezza di
musica che io, appena sentita, ho direttamente preso e messo nel
film, un po' qua e un po' là. Mi sembrava incredibile che
loro avessero composto queste musiche sulla sceneggiatura. Generalmente
non è così. Di solito succede che prima il musicista
si vede il film, e soltanto dopo vengono fuori le musiche. Io ricordo
di aver ascoltato in una notte quanto era stato composto, dopo essermi
sdraiato a letto, e che ascoltando mi pareva di vedere il film.
È una cosa pazzesca. Io ero già in fase di pre-montaggio
e nessuno di loro aveva visto una sola immagine del film. Sarò
stato 'mbriaco quella sera, ma sentivo queste musiche talmente belle
che crescevano, per cui il giorno dopo, quando le ho appoggiate
al film, allora mi è sembrato finalmente che il film cominciasse
a respirare. Prima sembrava mancare di ossigeno.
Se ho tempo vorrei invece tornare sul discorso del rapporto tra
cinema e televisione. Alcuni pensano che se Pasolini passa in televisione
non sia comunque "televisivo". Io potrò sembrare
brutale, ma ho un'opinione piuttosto radicale sull'argomento, e
quindi mi regolo di conseguenza: tutto ciò che passa in televisione,
è televisivo. Se Pasolini passa in televisione, viene trasformato:
allo stesso modo se io vendo il mio film alla televisione, non posso
neanche pretendere che il film non abbia interruzioni pubblicitarie,
o cose del genere. Insomma, sono io a dare il film alla televisione?
La televisione me mette i soldi intro 'a sacca? Allora basta, tutto
finisce qui! Perché il mio film voglio che la gente vada
al cinema a vederlo. Se mi è negata questa possibilità
il resto cambia poco. Se però il mio film passa in televisione,
io devo accettare che quanno guardo 'a televisione me fanno 'a telefunata,
parlo con l'architetto, m'appiccico co' mia moglie... Scusate, così
è la televisione! Io mica posso dire: "quando passa
il mio film in televisione, il signore tal dei tali nun ha da ire
intro 'o cesso". Invece anni fa c'è stata un'alzata
di scudi degli artisti di cinema contro le interruzioni pubblicitarie.
È 'na roba goffa, pure loro avevano i miliardi into 'a sacca.
Ribadisco che faccio i miei film sperando che li si veda al cinema,
ma nel momento in cui prendo i soldi dalla televisione, devo accettare
quanto questo comporta, nel bene e nel male. Il cinema è
una cosa troppo sacra, è un modo completamente diverso dalla
televisione di fruire l'oggetto proposto.
Antonino Iuorio - Da parte mia vorrei confessare di essere
rimasto molto deluso dalla infelice distribuzione del film, da come
le cose sono state gestite per una pellicola che a Roma, ad esempio,
è stata presente in poche sale, piccole o scomode da raggiungere.
Il problema secondo me è che un certo tipo di cinema andrebbe
sostenuto di più. Forse dico una banalità, ma se il
film fosse stato effettivamente sostenuto, e la gente fosse stata
informata in maniera migliore, le cose magari sarebbero andate diversamente.
Faccio un esempio. L'altra sera sono andato a teatro a vedere Il
Candelaio di Giordano Bruno, per la regia di Luca Ronconi. Si
trattava di uno spettacolo bello, ma anche difficile, senza ammiccamenti
al pubblico; eppure il pubblico c'era, essendo stata data la possibilità
a questo tipo di teatro di essere visto, all'interno di un discorso
che coinvolge le strutture parastatali e le organizzazioni legate
al teatro della nostra città. Ora non capisco perché
certi discorsi funzionano con il teatro e l'opera lirica, mentre
nel nostro paese si pensa che aiutare a produrre un film sia già
sufficiente. Un film andrebbe aiutato non solo ad essere fatto,
ma anche ad essere indirizzato verso i suoi naturali fruitori, le
persone.
Antonio Capuano - Non voglio certo fare polemica con te,
Antonino, ma la penso diversamente: la gente comunque non ci va
a vedere un certo tipo di cinema. Dobbiamo imparare a confrontarci
con la banalità di certe situazioni e a vedere le cose per
quelle che sono. Possiamo anche cimentarci con le analisi sui diversi
perché, sulla situazione delle sale, della distribuzione,
ma rimangono alla fine alcuni dati di fatto, che io preferisco prendere
così come sono, piuttosto che atteggiarmi a vittima del sistema.
Io sono consapevole di aver fatto un film difficile, sgradevole,
scabroso, che alla fine della proiezione rischia di togliere l'appetito
allo spettatore. Che cosa possiamo pretendere di più? Così
come va, già mi pare che stia andando bene.
Dario Minutolo - Per me invece non possiamo liquidare così
il problema della visibilità di molti film. Qualcosa di più
in termini di visibilità Tornando a casa lo ha ottenuto,
rimanendo per quattro settimane al Nuovo Sacher di Nanni Moretti.
Se uno guarda solo al discorso degli incassi, anche così
il film di Marra non ha guadagnato tantissimo, ma ha acquistato
tanti spettatori che sarebbero andati persi, se il film fosse stato
smontato dopo pochi giorni, come capita troppo spesso.
Uno spettatore - La conversazione di questa sera mi sembra
arrivata ad un punto morto, forse perché si sente parlare
del pubblico come fosse un fantasma, mentre le persone che compongono
il pubblico hanno le loro motivazioni, che non derivano soltanto
dalla loro personalità, ma anche da come nella nostra società
si viene incanalati. La gente si abitua a quello che trova. Mi sono
meravigliato, scoprendo che in posti come il Warner Village si incassa
di più con quello che la gente spende per bibite e pop-corn,
piuttosto che con i soldi spesi dal pubblico per l'acquisto dei
biglietti. I discorsi anche giusti fatti in questa sede devono comunque
fare i conti con le cose che spingono ad andare al cinema, cioè
con un fattore culturale. Qui la cultura non ce l'ha più
nessuno, caro dottor Martone... (risate tra il pubblico in sala,
dopo il lapsus dello spettatore, nota del curatore).
Antonio Capuano - Questo lapsus mi fa pensare a un simpatico
episodio che mi è capitato una volta per strada, verso Natale.
Mi stavano chiamando alle spalle gridando: "Martone! Martone!
Venga un attimo, che vorremmo intervistarla". Allora mi sono
girato per dire: "Io veramente non sono Martone, sono Corsicato".
Ecco la risposta: "Ah, lei è Corsicato, allora parliamo
un po', parliamo un po'..." E così abbiamo cominciato
a chiacchierare.
Un giovanissimo spettatore - Anch'io volevo dire qualcosa
su quello che afferma Antonio Capuano sul cinema. Io sono un ragazzo
che con il cinema ha lavorato sin da piccolo, per via dell'attività
che svolgeva mio padre. Io, per quanto riguarda la mia esperienza,
dò ragione completamente a Capuano. Prima di tutto, noi siamo
abituati a vedere film di fantascienza, di effetti speciali, perché
la televisione spara film di questo tipo, e per ragazzi come sono
io, o anche per quelli più giovani di me, prevale la curiosità
di vedere mondi lontani, storie paurose. Così alla fine il
pubblico è diviso in gruppi, ci sono quelli che ne sanno
di più sul cinema e quindi vanno a vedere film come quello
di Capuano, poi c'è la massa che si accontenta dei prodotti
più pubblicizzati. Io per questo dò ragione a Capuano;
se però i proprietari delle sale cinematografiche abbassassero
i prezzi, anche noi ragazzi saremmo più portati a vedere
altri film, cercando di mettere a frutto questa possibilità
di risparmiare.
Antonio Capuano - Saluto e ringrazio questo giovane spettatore,
che si è presentato quasi come un discepolo.
Dario Minutolo - Il problema è che non esiste un
circuito di sale disposto a fare cose del genere, a sostenere per
esempio i film italiani nella loro circolazione. Lo Stato italiano
quello che aveva lo ha lentamente e progressivamente consegnato
alla concorrenza privata. Quello che auspicava Antonino Iuorio poco
fa, che i film italiani vengano sostenuti non solo produttivamente,
ma anche con una distribuzione adeguata, lo si dovrebbe considerare
una cosa normale, e invece non lo è.
Antonio Capuano - Si è parlato parecchio della distribuzione
e del pubblico, ma tra il pubblico mi ci metto pure io; quindi si
può dire che ce l'ho anche un pò con me stesso. A
proposito di un pubblico un po' particolare, vi posso raccontare
che alcuni giorni fa ho partecipato ad un incontro all'Università
Federico II , organizzato da un docente di storia del cinema, Pasquale
Iaccio. Un mese prima era stata stabilita di comune accordo la data;
al tempo stesso ero stato incoraggiato dal professore a portare
un backstage di Luna rossa, visto che si sarebbe parlato
del film, che intanto gli studenti avrebbero avuto tempo di vedere
al cinema. Arrivati al giorno stabilito, mi sono presentato all'incontro,
per poi scoprire che di duecento iscritti al corso soltanto due
avevano visto il film. Io non mi capacitavo del fatto, che questi
qui erano venuti all'università soltanto per scaldare le
sedie, dopo essersene fregati alla grande di quello che il professore
aveva consigliato loro. Questo lo racconto per dire che razza di
gente si può incontrare tra il pubblico.
Mino Argentieri - Questi episodi dimostrano una cosa, che
quando il cinema entra nell'università, diventa una materia.
Allora ci sono studenti che credono che la storia del cinema si
possa studiare a prescindere dai film. È capitato anche a
me, insegnando all'Orientale di Napoli. Il problema grosso è
che spesso sono i professori a pensarla allo stesso modo degli studenti.
Quando proprio all'Orientale ho fatto presente la necessità
di proiettare i film, molti colleghi sono caduti dalle nuvole. Per
indurre gli studenti a sostenere gli esami conoscendo i film, ho
dovuto introdurre l'obbligo non di seguire le mie lezioni, ma di
vedere i film stabiliti. Così sono riuscito a decimare i
miei studenti, dato che siamo partiti con circa quattrocento iscritti,
per arrivare finalmente a fare un vero corso di storia del cinema
con gente motivata, e non con gente che si trovasse lì solo
pensando di preparare un esame più facile di altri e con
maggiori attrattive. Gli studenti con questo sistema si sono ridotti
a una cinquantina di elementi veramente interessati.
Antonio Capuano - Vorrei chiudere dicendo altre due parole
sulla questione degli spettatori. Rispettare il pubblico per me
significa non pensare al pubblico. Significa quindi evitare di fare
il ruffiano e di cercare a tutti i costi di essere accattivante:
questo è a parer mio il vero rispetto che si deve avere per
la gente.
(L'incontro si è svolto presso la libreria Bibli di Roma,
il 1° dicembre 2001)
(Trascrizione e sintesi a cura di Stefano Coccia)
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