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INCONTRO CON ANTONIO CAPUANO

Cinemassessanta, n. 3, maggio/giugno 2002

Mino Argentieri - Nell'organizzare gli incontri di quest'anno noi di "Cinemasessanta" abbiamo fermato la nostra attenzione su tre pellicole che abbiamo ritenuto tra le più significative di questa stagione, anche se si tratta di film che nelle sale non sempre hanno ricevuto l'accoglienza che meritavano. Ma anche questo può essere un incentivo a proseguire in una certa direzione, nella quale andiamo sempre più caratterizzandoci.
A questo punto introdurrei il regista nostro ospite, Antonio Capuano, affidandone la presentazione a Dario Minutolo, segretario generale dell'Associazione per gli Studi e le Ricerche della Storia del Cinema, nonché collaboratore di "Cinemasessanta" e di altre riviste.

Dario Minutolo - Non ci sono molti dubbi riguardo al fatto che uno dei fenomeni più significativi del cinema italiano dell'ultimo decennio sia stato l'affermarsi, abbastanza veloce ma non privo di polemiche, di un gruppo di registi napoletani. Ricordando un'espressione come "nuovo cinema napoletano" si entra subito nel cuore della polemica. È quasi inevitabile che alla stampa venga voglia di usare definizioni come questa. Dopo un episodio importante come l' uscita de I vesuviani si è infatti moltiplicato il numero delle voci che in ambito giornalistico e critico si sono fatte sentire. C'è chi ha parlato di un non meglio identificato e poco chiaro "sud-espressionismo", come ha fatto Farinotti in alcune schede del suo dizionario riferite agli autori napoletani. Qualche anno prima de I vesuviani, "Cinemasessanta" con discreta lungimiranza e maggiore pacatezza aveva definito il fenomeno che si stava profilando "laboratorio napoletano", evidenziando giustamente una realtà meno compatta rispetto a quanto suggerito dalle altre definizioni che via via sono state date. "Laboratorio napoletano" va bene, perché rimanda al concetto di bottega, alla contaminazione dei linguaggi artistici. Questo gruppo di artisti napoletani non era una comunità, ma un insieme che, tramite l'operato dei singoli, si è espresso all'interno di una stessa koiné, di una stessa tradizione culturale, che ognuno poi ha cercato di rivitalizzare con la propria cifra stilistica. Diciamo che, per quanto riguarda quella che potremmo considerare la prima onda, si avvertiva un sentire comune, l'esigenza di ripresentare Napoli al di là dei luoghi comuni, al di là dei cliché nei quali era degradata progressivamente.
Questo è stato fatto da ciascuno dei registi napoletani che a partire grosso modo dal '90 hanno esordito nel cinema, ognuno con delle cifre stilistiche assolutamente personali; questa è la ragione per cui il fenomeno ha una valenza indiscutibilmente nazionale. Si è trattato di unità produttive che già operavano, e che hanno garantito un modo di produzione diverso da quello nazionale, costituendo tra l'altro, se vogliamo dare un senso a questo piccolo rilievo, il gruppo localmente determinato più numeroso. Questo aspetto recupera inoltre una vecchia tradizione napoletana; con l'eccezione del periodo fascista, noto per l'ostracismo al regionalismo e soprattutto al realismo troppo crudo dei napoletani, Napoli è sempre stata una delle capitali produttive cinematografiche italiane. Il recente lavoro di riproposizione dell'immagine e della storia di Napoli affonda le radici nella tradizione culturale napoletana. I registi di cui parliamo, ognuno nella sua maniera, lavorano tutti su una nuova topografia della città: non ci sono le solite immagini da cartolina, i posti che si è abituati a vedere. Di Martone, ad esempio, si può dire che abbia il dolly bloccato su Piazza del Plebiscito, che già era luogo rappresentativo dell'era Bassolino, venendosi così a trovare bloccata anche la classica visione del golfo. Antonio Capuano, dal canto suo, si muove sempre nel centro storico, ammesso che Napoli abbia un centro. Nei suoi film è presente tutta un'area assolutamente napoletana, la più antica, la più radicale, ma anche quella meno utilizzata. Capuano recupera anche tutti i tratti universalistici che hanno caratterizzato la cultura napoletana, che è fatta di contaminazioni, di linguaggi diversi, linguaggi sia artistici che quotidiani, legati alle svariate dominazioni succedutesi.
La cifra stilistica di Capuano è quella di un cinema molto intenso, con una voglia di narrare che rimanda tutto sommato al noir, specie se si considera i primi film, che guardano al modello americano di una narrazione efficace, senza troppe divagazioni. Si tratta sempre di vicende ben inserite in un contesto, dove, perfettamente in simbiosi con la tradizione napoletana, hanno un'importanza fondamentale i corpi.
Capuano ha una cura direi quasi pasoliniana nella composizione dei corpi e nel rapporto con gli attori. È per certi versi un continuo corpo a corpo. Luna rossa, per chi lo ha visto, è un esempio emblematico, costruito su un piano americano perenne; anche quando si è in campo aperto, si chiude sull'attore come se si realizzasse tramite la m.d.p. un corpo a corpo tra il regista e l'attore stesso. Di Pasolini, a tratti, Capuano ha un estro surreale, come rivelano Pallottole su Mater Dei e molti degli episodi di Polvere di Napoli. Sostanzialmente, i generi toccati dal cinema di Capuano sono questi: il noir, il cinema di denuncia sociale e quella che riconosciamo come una vena commedica strana, ironica, surreale, una vena emersa proprio con Pallottole su Mater Dei, un corto delizioso che credo possa essere stato visto solo in televisione, su Tele Più.
Al pubblico la cosa dovrebbe risultare evidente, grazie all'episodio da lui diretto de I vesuviani; avendo subìto però I vesuviani tutte le conseguenze della baraonda veneziana, l'accoglienza del film da parte del pubblico è stata molto condizionata. Lo stesso Capuano non è d'accordo con me, ma la mia opinione personale sul film nel suo complesso è molto migliore di quanto generalmente è stato detto. Tra i pochi ad averlo sostenuto, andando a vedere, ci siamo stati io, Mino Argentieri e Giorgio De Vincenti: caso strano, ma in tutti e tre i casi parliamo di persone legate a "Cinemasessanta". Per lo spettatore normalmente abituato a Vito e gli altri e a Pianese Nunzio,14 anni a maggio , l'episodio Sofialorén è una sorpresa, quasi una slapstick; verrebbe la tentazione di chiamarlo omaggio, ma poi giustamente gli autori si infastidiscono di fronte alla pretesa dei critici di cercare continuamente ascendenze e filiazioni varie.
La versione più compiuta di questo aspetto commedico è senz'altro Polvere di Napoli, ma qui, quanto all'accoglienza ricevuta, è stata forse colpa dell'autore rimandare nel titolo al film di De Sica...

Antonio Capuano - Vi interrompo per dire che la gente solitamente lo chiama Polvere di stelle o L'oro di Napoli, ma a chiamarlo Polvere di Napoli, non ci prova nisciuno...

Dario Minutolo - Anche questi sono archetipi che interferiscono con l'immaginario e le fantasie degli spettatori. Rimanendo su Polvere di Napoli, è evidente lo spiazzamento nell'uso del paesaggio; in questo caso abbiamo Pompei, ed altri luoghi in definitiva poco utilizzati nel cinema. Quanto a corpi anche qui non si scherza; almeno nell'episodio dei due fidanzati e nell'episodio di Orlando a Pozzuoli, c'è questa peripateticità dei personaggi, che è un'altra caratteristica del cinema di Capuano e in buona parte anche degli altri napoletani. Non si sa se è un camminare stanziale, o se è un camminare che produce, come pare a volte. Luna rossa si riconnette invece ai primi due film, al filone originario con cui si è presentato Capuano nel panorama cinematografico, segnalatosi con film intensi, cupi, di forte denuncia. Qui viene fuori un altro problema: quando si affronta il problema della mafia o, come in questo caso, della camorra, trattando i personaggi in un certo modo, si rischia di passare per giustificazionisti. In realtà bisogna pure descrivere il fenomeno per quello che è. Nel caso di Luna rossa la descrizione è forte, sentita, vissuta, evidenziata con un tocco in più che ne dimostra ulteriormente la napoletanità: questo tocco è il richiamo alla tragedia greca. Come saprete, la vicenda del clan camorristico di Luna rossa è in parte ricalcata sull'Orestea. Questo è un altro dei modi di mettere in scena quell'universalità caratteristica della cultura di Napoli, una Napoli che anche nelle radici greche può trovare molte spiegazioni della propria vita cittadina e della propria produzione culturale. A questo punto vorrei chiedere direttamente a Capuano come va inteso l'uso della tragedia greca per raccontare una faida di potere collocata all'interno di un clan.

Antonio Capuano - In effetti, io non sono il primo, né sarò l'ultimo, ad usare questi grandi racconti archetipici per mettere in scena il presente. A volte si fa pure il contrario: si usa il presente per riproporre racconti archetipici. Sono tantissimi gli esempi di queste contaminazioni. L'ultimo, non so se lo avete visto, è il film di Ripstein, che ha fatto una Medea a Città del Messico molto bella, molto cupa, veramente molto Medea, potendo dire così. Quella è la rappresentazione del moderno attraverso una struttura archetipica, per la quale siamo portati inevitabilmente a fare una considerazione, anche se molto banale e meccanica, che tra di noi esiste ancora il problema di Medea, il problema di Edipo, il problema di Antigone, il problema di Clitennestra, così come esiste ancora Amleto tra di noi. Voglio dire che nei racconti di questi grandi tragici emergono problematiche non risolte, ancora valide ai giorni nostri come problematiche esistenziali, almeno fino a quando qualcosa non cambierà radicalmente. Alcuni passaggi della nostra vita, del nostro relazionarci, sono ancora inchiodati a questi problemi mai totalmente compresi che ci affliggono, senza che ci sia da parte nostra la possibilità di eliminarli definitivamente, avendone sviluppato pienamente i significati. Forse ci sarà in futuro una società organizzata diversamente, neanche io so come, magari con figli nati in provetta e senza le famiglie tradizionalmente intese. Può darsi che non sentiremo più parlare di Medea; così Giasone potrà farsi i cazzi suoi , e Medea nun se ne fotte; Edipo, il figlio, non avrà più amore per la mamma; oppure, se ci saranno queste relazioni, saranno relazioni tutte esterne, e quindi non intrise di questa grave problematicità di cui oggi sentiamo il peso. Ma oggi questa condizione ci riguarda tutti, dagli Australiani ai Napoletani, agli Americani, ai Bosniaci, perché è la condizione stessa del nascere e del vivere. Chiaramente, poi, essendo io napoletano, e quindi legato culturalmente in qualche modo alla Grecia, mi sento particolarmente vicino ad una certa visione della drammaturgia. Dovevo quindi raccontare gli aspetti interni di questa famiglia, ma volevo raccontare ciò non attraverso uno schema abitudinario, realistico, da legare all'idea di un tran tran quotidiano, perché in definitiva mi sarebbe sembrato qualcosa di superficiale e fastidioso. Volevo al contrario che il racconto di questa famiglia si trasformasse in un racconto esemplare, per cui ho pensato di usare questa struttura drammaturgica presa direttamente dalla grande tragedia, dalla tragedia greca, per conferire un tono di astrattezza e sublimazione. Tra i miei obiettivi rientrava che le conversazioni dei componenti di questa famiglia fossero intessute di una forma di dialogo molto più intensa, un dialogo insomma che sfiorasse alcuni canoni estetici, raggiungendo esiti più alti. Lo potete capire bene se avete contrabbando, come piace dire a me, con la tragedia greca, ma anche con i grandi tragici moderni, da O'Neill fino a Pasolini. Quando si organizzano i dialoghi per le grandi tragedie c'è, improvvisamente, un salto, o una curiosa fuga in organizzazioni sintattiche particolari. Di questo avevo bisogno per creare uno scarto rispetto ad una realtà che mi sembrava non potesse servire a realizzare un film così intenso e forte come volevo; poi non so se ci sono riuscito.

Dario Minutolo - Sicuramente questi elementi hanno funzionato, almeno secondo me, ed è un discorso ulteriormente rafforzato dalla scelta di far prevalere gli interni, con la m.d.p. sempre incollata ai corpi. Sono tutte scelte indovinate, o per meglio dire azzeccate, visto che il napoletano in certi casi rende di più.

Antonio Capuano - È così. Io certamente volevo stare con la macchina sugli interpreti, volevo addirittura leggere dentro di loro. Quando tu guardi gli occhi di un attore, cazzo, è una cosa diversa dal fare un totalino. Io qui, in questo film, avevo bisogno proprio di stare addosso, di vedere la pelle, di vedere le salive; doveva essere, cioè, un film molto corporale, molto aderente alla vita materiale, perché io considero che la vita materiale sia una cosa straordinaria, una cosa che tutti quanti noi, nonostante le nostre arie da intellettuali, da sofisti, da snob, riconosciamo come talmente forte da non poterla trascendere. Quindi, volevo anche raccontare i corpi, i loro umori, il loro sangue, le loro stesse feci, se ci fosse stato bisogno. Non vi scandalizzate: io volevo fare un film veramente duro, e poi nun me ne fottìa un granché di appartenere ad un panorama cinematografico commestibile, gastronomico. Intendevo veramente costruire una scatola nera e dura, profonda, una specie di pozzo dove volevo scendere e non far respirare il pubblico, mettendolo di fronte a delle grosse e sublimi tragedie.

Dario Minutolo - Sono contento di essere stato breve nella mia introduzione, perché come vedete Antonio Capuano sa spiegarsi perfettamente. Questa è la cifra stilistica cui io mi riferisco facendo il nome di Pasolini. Il contributo di Capuano al cinema napoletano, o per meglio dire al cinema nazionale, è proprio quello di aver recuperato non i modi di Pasolini, perché ognuno fa cinema a modo suo, ma molte delle intenzioni e molte delle aggressioni pasoliniane di cui sentivamo decisamente la mancanza. Potremmo cogliere l'occasione per chiedere ad un attore di Luna rossa qui presente, Antonino Iuorio, come ci si sente ad avere qualcuno con la m.d.p. che è sempre lì e non ti molla un attimo.

Antonio Capuano - Ribadisco che la sensazione di stare addosso a un attore è importante, e qui con Antonino abbiamo un campione molto rappresentativo, una presenza corporea forte e importante nel film. Sicuramente lui può raccontarvi come si sente uno quando la m.d.p. lo indaga.

Antonino Iuorio - Questo è il secondo film che faccio con Capuano. In Polvere di Napoli il rapporto, se possibile, era ancora più duro, più diretto, per via di un vero e proprio problema di tecnica di ripresa cinematografica, sul quale vorrei dire l'essenziale senza dilungarmi eccessivamente.
Ormai l'attore è in grado di avvertire il girare della m.d.p., il rumore che fa, specialmente perché negli anni passati noi, che tentiamo di fare un cinema non proprio commerciale, abbiamo imparato una cosa: ci hanno insegnato, ci hanno fatto comprendere che la pellicola costa, e quindi in un certo senso si rimane condizionati dal rapporto con la macchina. Prima era diverso, erano due piani separati. Adesso invece c'è un grande coinvolgimento, anche perché questo è veramente un tipo di cinema che si fa e si vive tutti quanti insieme. In Polvere di Napoli Antonio girava lunghi piani-sequenza: non amava interrompere una scena. Per cogliere ciò che a lui interessava, andava di servizio da un primo piano all'altro senza staccare, e questa era una cosa che ho subìto molto, e da cui ho anche imparato molto; ho appreso così il tentativo estremo, vitale, di tenere dentro un'unica azione, che non risultasse da fotogrammi separati, tutti gli umori, tutti i climi, tutte le tensioni che offriva la storia.
Arrivando a questa recente collaborazione, ho constatato che Capuano aveva subìto un'evoluzione, essendo lui nel profondo un uomo di cinema, un artista. Adesso fatico a trovare le parole, ma mi viene da dire che di fronte a lui si ha un'impressione particolare, quella di trovarsi davanti a un work in progress reale: sul set quotidianamente si verifica un'accelerazione, per cui lui, guardandoti recitare, capisce determinate cose, te le comunica dopo una prima rielaborazione, e insieme si va avanti costruendo qualcosa di nuovo. In Luna rossa si avvertiva quindi un'esigenza diversa, quella di comprimere l'immagine. Ti confrontavi con questa macchina che ti veniva addosso, nella quale tu spesso finivi quasi per inciampare, avvertendo costantemente la difficoltà dei movimenti in spazi, in ambienti che uno sarebbe tentato di definire non claustrofobici, ma "claustrofilici". C'era il piacere di sentirsi dentro ad una scatola, la voglia di lavorare nel piano americano, soprattutto perché non sentivi sul set quello che, in realtà, era alla fine un percorso vero e proprio studiato con cura da Antonio; sentivi la quotidianità, il lavoro che nasceva, si sviluppava, andava avanti, per cui alla fine non ti dovevi più preoccupare del sudore, della pancia, del foruncolo, del graffio. Tutto faceva storia. Lui non voleva che ci si truccasse. Molto spesso ho assistito a "struccaggi" immediati, fatti da lui, con asciugamani, di attrici che a volte si aggrappavano alla certezza di voler essere truccate in un certo modo. Lui arrivava con un panno, un asciugamano, e cancellava i segni del lavoro del truccatore. Dunque siamo stati tutti esposti, ma la bellezza di tutto ciò, almeno per quello che sono riuscito a percepire io, è che tutti si fidavano di Antonio. Io stesso ho lavorato in grande armonia, esponendomi, esponendo il mio corpo che non è proprio un bel corpo, volendo. Però lui mi ha insegnato che tutto sommato il mio corpo raccontava, ed è quello che gli interessava realmente. Mi ricordo di una scena in cui eravamo col perizoma, ed era piuttosto imbarazzante, per esempio, fare scene di sesso abbastanza realistiche, dove perlomeno i corpi si incontravano, sistemati con quelle cose addosso piuttosto ridicole. Così a un certo punto queste cose che erano d'impaccio ce le siamo levate, con una grande naturalezza, svolgendosi anche queste situazioni in maniera molto armonica. L'armonia che c'è in questo film secondo me è restituita in qualche modo dal prodotto finale. Questo è un film rispetto al quale io, da spettatore, ogni volta che lo rivedo o che riprendo in mano l'Orestea, preferisco concentrarmi su un personaggio. Perché una cosa è leggere l'opera nella sua interezza, una cosa è entrare nello spirito di un personaggio alla volta. Questo mio approccio vale sia per il film, sia per l'opera di Eschilo, che amo molto e che in questi anni ho riletto spesso. Quanto al film, ogni volta che lo rivedo, entro nella logica di un personaggio, ne scopro dei dettagli, seguo le sue dinamiche. Luna rossa costituisce per me un esercizio continuo: sono andato da poco a vederlo per la decima volta, e pensavo che avrei finito per andarmene. Invece sono rimasto fino alla fine, trovando ancora cose di cui non mi ero accorto, possibili letture. Quando accade questo, per un attore va bene anche considerarsi, come diceva Capuano prima, un corpo. Perché no? Se il risultato è così sublime, è giusto che l'idea di essere un corpo faccia parte integrante del percorso.

Antonio Capuano - Aspettando qualche domanda dal pubblico, vorrei approfittarne per salutare Carlo Pontesilli, che è l'editore delle musiche, e dire due parole a questo proposito. Innanzitutto, e questo lo dico per biechi motivi pubblicitari, segnalo l'uscita di un doppio CD con la colonna sonora del film. Pe' fa nu poco e' promozione, diciamo che si tratta di un doppio CD al prezzo di uno. Io l'ho sentito l'altra sera, e mi ha fatto un effetto ancora più bello di come sono le musiche che sentite nel film. È vero quello che state pensando, lo dico anche un po' per vendervelo, però voi fidatevi. Per esempio, c'è una canzone di Raiss degli Almamegretta, Astrigneme, che a me piace da matti, e di cui è stata fatta una versione particolare, veramente bella, con un inizio dove si sentono i colpi di sassi che cadono nell'acqua, e una voce poi che viene su e sembra arrivare da lontano.
Ma tornando alle parole che ha usato Antonino Iuorio a proposito di Luna rossa, c'è da dire che a noi interessa il cinema nella maniera in cui il colore interessa a chi dipinge, o la scrittura a chi scrive. Questo va al di là di ogni discorso sulla camorra, sui contenuti puri e semplici della rappresentazione, sulla sociologia più o meno bassa che si fa intorno a un film e che ci trasforma tutti quanti in sociologi o in antropologi. Mi pare che così le qualità più autentiche del cinema si stiano un poco perdendo; voglio dire che se dovessi indicare qualità cinematografiche in film italiani oggi in circolazione, non saprei bene cosa segnalare. Oggi si privilegia la sceneggiatura, il plot, al punto che le scelte che fanno poi la qualità del cinema, scelte che riguardano i rapporti tra l'immagine e il suono, l'importanza dei silenzi, o cose di questo genere, finiscono per essere poco o niente considerate.
Un cinema che presenti queste qualità io non lo incontro quasi più; esistono al massimo sceneggiature più o meno funzionanti, ma quanto al cinema inteso come corpo, inteso come materia, inteso come luce, inteso come movimento di macchina, mi pare che ci stiamo lentamente disabituando. A me sembra che specialmente qui da noi tale mancanza si avverta sempre di più; mi viene spontaneo chiedere ai critici e agli esperti qui presenti se è una sensazione soltanto mia o se è un qualcosa avvertito anche da altri.

Mino Argentieri - Capuano tocca sicuramente un tasto giusto; anche se le perplessità sopravvengono non solo per film italiani, ma anche per film di altri paesi. Spesso e volentieri, vedendo film di questo tipo, ci si finisce per domandare perché l'autore non abbia scritto una commedia, o un lavoro da destinare alla televisione. C'è quindi un deperimento dell'elemento visivo. Si riscontra un prevalere della parola, mezzo con il quale bisogna fare sempre i conti, ma che non può essere da solo la chiave di volta di un racconto cinematografico. È difficile dare così, su due piedi, una risposta ad un quesito così complesso. Fondamentalmente il cinema è una scoperta che avviene attraverso gli occhi, seppure con il supporto importante del suono e della parola. La forza del Neorealismo, negli anni del dopoguerra, non era soltanto nel tipo di realtà che veniva portata sullo schermo, ma era anche la forza aggressiva, creativa e inventiva dell'occhio che scopriva e riportava sullo schermo cose che non si erano mai viste. Adesso spesso al cinema si va per sentire. Lo stesso Scene da un matrimonio del grande Bergman fa sembrare più importante il fatto di ascoltare attentamente quello che si dice, rispetto al tenere lo sguardo puntato sullo schermo. Però Scene da un matrimonio nasce come pezzo televisivo, quindi non poteva essere diversamente da ciò che è. Invece è purtroppo vero che oggi i film nascono pensando fondamentalmente alla televisione, al pubblico televisivo, a uno spazio diffusionale e ad una vita che sarà molto più lunga di quella offerta dai circuiti cinematografici. Questo, secondo me, influisce profondamente, così come influisce il problema dei costi, perché più ci si muove, più si esce dalla prospettiva del cinema girato tra camera e cucina, più i costi lievitano e nascono complicazioni.

Antonio Capuano - Sì, ma noi non ne possiamo più di queste costrizioni. Noi autori ci siamo rotti le palle di questa trafila per cui passiamo da un produttore, il quale per prima cosa va ad offrire il film alla Medusa, o alla Rai, e, se il film a questi signori non piace perché non rientra nei canoni della televisione, va a finire che il film non si fa proprio.
A questo punto io reagisco da estremista, dico che è meglio che di film non se ne facciano più. Che le sale rimangano vuote, dico io! Ma che è 'sta fregola de fa' a televisione. Noi vogliamo fare il cinema, e dobbiamo fare il cinema! A me di un cinema che sia televisione, nun me ne fotte proprio!

Mino Argentieri - Noi siamo d'accordo con te, però al di là di questi fattori materiali, di queste condizioni oggettive che influiscono tantissimo sul lavoro creativo, vi è però anche un punto debole negli stessi autori, cioè che gli autori troppo spesso mancano di quella passione, di quella aggressività che ti porta comunque ad avere un'ottica. Ce l'aveva Rossellini, ce l'avevano alcuni registi del Neorealismo. Non ce l'aveva per esempio Visconti, che si presentava con un occhio di altra natura, l'occhio di un esteta, di un uomo raffinato che nello spettacolo cinematografico vedeva la sintesi delle arti di vari filoni culturali, e che quindi non aveva quel palpito che troviamo nel primo Rossellini, e che Rossellini perderà nel corso degli anni, arrivando pure lui a fare un cinema da studio; se pensiamo a Il generale Della Rovere, era già qualcosa di molto diverso rispetto a prima.
Tornando ad oggi, c'è anche questa mancanza, l'incapacità di raccontare le nostre città con vigore.

Antonio Capuano - Ma è chiaro che il problema è anche, e soprattutto, degli autori. È il problema di chi si mette l'anima in pace finendo a fare filmetti buoni per la televisione. Ovviamente, quelli che rischiano lo fanno sul serio, perché chi ha il coraggio di fare i film contro la televisione subisce le angherie di chiunque. Spesso, poi, quelli che vengono considerati i nostri maestri recenti sono in realtà delle chiaviche. Da una parte ci sono quelli il cui cinema è ancora "vivo", quelli da cui veramente si può apprendere qualcosa d'importante, come nel caso di Francesco Rosi. Invece il nostro cinema si è talmente rimpicciolito, che abbiamo scambiato per nostri maestri gente che non vale assolutamente nulla.

Dario Minutolo - E chi sarebbero questi di cui tu parli?

Antonio Capuano - È sufficiente pensare al cinema romano, al cinema che si fa qui a Roma. Potrei raccontare questo, di quando tempo fa sono stato a Belgrado, dove erano state scelte alcune pellicole per rappresentare il cinema italiano. Guarda caso, si trattava di tre film napoletani. Del resto, questo corrisponde in pieno a quanto detto prima sul cinema napoletano: queste pellicole, Vito e gli altri, Morte di un matematico napoletano e Libera sono tre autentici segni cinematografici, non tre film carini, scritti bene, con una sceneggiatura funzionale. Questi invece erano tre segni forti di cinema, come forse oggi può essere considerato il film di Vincenzo Marra. fatemi il nome di un cosiddetto cineasta romano che lasci un segno altrettanto forte!

Dario Minutolo - Io non vorrei entrare nel merito di queste polemiche. Quello che volevo sottolineare era soltanto la forza d'urto di questa presenza napoletana nel nostro cinema. Il caso poi vuole che questi autori, quasi a offrire un ulteriore pretesto ai dibattiti giornalistici, finiscano per uscire in blocco, ogni paio d'anni, con le nuove opere di quattro o cinque di loro.
Curiosamente è successo così in passato, suscitando polemiche e prese di posizione, mentre quest'anno, essendosi creata in pratica una situazione simile, i giornalisti sembrano aver preso sotto gamba queste uscite.
Questa scarsa attenzione si è manifestata per diversi autori: per Antonietta De Lillo, che ha portato il suo film a Locarno; per Vincenzo Terracciano, che è stato costretto per l'ennesima volta ad andare prima nei festival minori in Francia, raccogliendo premi a tutto spiano, ma senza poter uscire in Italia; per Marrazzo, il cui primo film, molto bello, presentato anni fa a Venezia, non è stato più visto in giro, mentre quest'anno il nuovo film ha vinto premi a Sulmona. Comunque, è vero il fatto che il cinema napoletano all'estero è tornato ad essere una delle realtà maggiormente prese in considerazione.

Antonino Iuorio - Mi sento anch'io d'intervenire, perché non penso che Capuano parlasse di un cinema regionale identificato, parlando del cinema romano. Io ritengo che si riferisse a questa ignobile cordata di registi di regime che continuano ad essere molto considerati. Oggi anche secondo me c'è la tendenza, ben radicata nella sfera del cinema d'autore, a voler condurre in una direzione che interessa solo ad alcuni. Tutti gli altri, siano essi napoletani, friulani, baresi, non rientrano in quello che a volte è addirittura un salotto, un salotto di gente che compie un percorso diverso, se vogliamo anche rispettabile, ma che ha il torto d'imporsi su ogni possibile discorso di pluralità.
A me non infastidisce il percorso che fanno gli altri, anche qualora a me non interessi, perché il mio principio generale è che ognuno abbia facoltà di esprimersi. Spesso però accade che, o si è nella linea di quanto in quel momento viene portato avanti, o si è completamente fuori, il che significa essere boicottati. È questo che io, da artista, da attore, ritengo insopportabile, auspicando in qualche modo una rifondazione. In questo io mi sento impegnato personalmente, avendo scelto di fare determinate cose e di seguire nel mio lavoro persone che più di altre stimo, comprendo, apprezzo, e con le quali sono solidale.
Per questo mi dispiace profondamente vedere ignorate le cose che io faccio con fatica, o che altri fanno con fatica, e ne approfitto per dire che il già citato film di Marra anche a me è piaciuto moltissimo. Ma occorre specificare che io sto parlando non di cose che vengono ignorate perché siano brutte o per assenza di valore, ma perché non sono in sintonia con certi discorsi di potere, con l'orientamento di altri progetti che godono di tutte le attenzioni.

Dario Minutolo - Vorrei precisare una cosa, che quando io parlo di napoletani, non lo dico per una questione localistica; so che ci sono state e continuano ad esserci uscite di registi di differente provenienza e dotati di un minimo di visione cinematografica. Il problema è soltanto che i napoletani ormai hanno fatto massa, hanno raggiunto un numero cospicuo. Accanto a questo va notato che è una caratteristica tipica di questi autori fare un cinema assolutamente non televisivo, provocatorio, aggressivo. È insomma un cinema che non nasce appositamente per essere rinchiuso nella scatola televisiva. Anche il piano americano continuo di Luna rossa, pur trattandosi di un film girato prevalentemente in interni, visto in televisione non funzionerebbe nella stessa maniera.
Il problema degli altri non è soltanto un problema strutturale, industriale, al quale noi fra l'altro abbiamo spianato la strada, lasciando che si facesse di tutto perché alla fine la televisione fosse un referente fondamentale per mandare avanti la produzione cinematografica. Non è soltanto questo; è che i registi si sono auto-educati a pensare di fare cinema televisivo, e questo andazzo si è manifestato già dagli anni '80.
Tra tanti registi e piccoli movimenti che si sono adeguati a una simile tendenza, è facile quindi individuare una proposta differente. Parliamo di una realtà, quella di questi cineasti napoletani, che si è presentata squadernando le posizioni precedentemente createsi, e la cui forza è quella di riuscire a prodursi comunque, in un modo o nell'altro. I napoletani riescono a fare i loro film perché non sono del tutto dipendenti da Roma. Accanto alle figure di registi esordienti, si sono formati tecnici, montatori, direttori della fotografia, costumisti, che hanno favorito la nascita di un altro sistema di produzione. Quanto alla stampa, ad eccezione dei film di Martone, in passato presi di mira più facilmente di altri, e ad eccezione de I vesuviani, che io difendo nonostante lo stesso Capuano non lo gradisca un granché, troverete quasi sempre buone, se non ottime recensioni dei film napoletani. Soltanto che questi film non si vedono. A Venezia Luna rossa è stato elogiato in molti articoli, ma questo non è servito al film per avere una vita normale nelle sale. C'è una sorta di nemesi che si abbatte su quelli come loro che stanno ai margini, che vogliono fare cinema "indipendente", fuori dalle logiche imposte dalla televisione.

Antonio Capuano - Mi era facile immaginare già dalla scrittura del soggetto che destino avrebbe potuto avere Luna rossa; anzi secondo me ha raccolto più di quanto potevo aspettarmi. Io già nello scrivere il soggetto sapevo di fare un film impopolare, perché conoscendo l'accoglienza riservata ad un certo tipo di cinematografia ci si può rendere conto di quello cui si va incontro. È così, ed è addirittura giusto che sia così. Il mio appello a non dimenticarci del cinema vuole pertanto raggiungere quelli che sono veramente affezionati al cinema, quelli che frequentano biblioteche come questa e vogliono vedere un certo tipo di film. Così come l'appello è rivolto anche a quei cosiddetti colleghi ai quali sembra non interessare più di tanto l'oggetto del nostro lavoro, il cinema.

Una spettatrice - A questo punto vorrei sapere qualche nome, tra quelli di quei cineasti romani che secondo lei non fanno cinema. E poi mi piacerebbe che lei dicesse qualcosa in più su Rosi, visto che a me un film come Le mani sulla città sembra dipendere troppo dai fatti di cronaca dell'epoca.

Antonio Capuano - A me non va di mettermi a fare esempi, e comunque questa produzione romana corrente è qualcosa che tutti quanti noi abbiamo sotto gli occhi. È giusto che ci siano quelle che io chiamo storielle commestibili, gastronomiche, soltanto che bisogna avere l'accortezza di non spacciarle per cinema d'autore. Sono film che nei festival dovrebbero rimanere lontani dai premi, mentre invece alcuni di questi signori quando non vengono premiati hanno pure il coraggio d'incazzarsi. Voi volevate qualche nome di chi non fa vero cinema, e a questo punto, anche a dimostrazione del fatto che non ce l'ho contro una particolare regione o città, faccio da napoletano il nome di Salemme, che fra l'altro è pure un amico. Diciamo che è un mio amico e ne voglio parlare male. Ecco, Salemme non ha niente a che vedere con il cinema, e neanche lo pretende; almeno è uno consapevole.
Quanto invece ho sentito dire prima a proposito di Le mani sulla città non lo condivido assolutamente. Già dai titoli d'inizio è un film che presenta sublimazioni fortissime, dimostrando di essere vero cinema. Non c'entra il legame con la cronaca del momento, sono altre le cose importanti; come dicevo vi è qualcosa di esemplare già nell'inizio, in come è vista la città a partire dai titoli di testa. Quello che colpisce è come viene inquadrata la città di Napoli, con gli zoom stretti sui palazzi dall'alto e con altre scelte di ripresa. È chiaro che ci fa vedere i palazzi di Napoli, ma l'importante è il modo in cui ce li fa vedere, il taglio che viene scelto.

Uno spettatore - Per dire queste cose ci vuole un'educazione cinematografica, che il pubblico magari non ha.

Antonio Capuano - Io non lo so di preciso cosa ci vuole. Ci vorrà forse un corredo di sensibilità di cui io non ho l'elenco, perché se ci fosse questo elenco, magari ognuno di noi le potrebbe acquisire senza difficoltà. È il mistero della cosiddetta poesia. La poesia stessa non ha un corredo di elementi. A pensare diversamente può essere giusto qualche scrittore capace solo di mistificazioni, capace insomma di dire che si può imparare ad essere scrittori. Io dico di no, che tutt'al più si può imparare a scrivere una frase in corretto italiano, ma poi c'è un salto, c'è da realizzare una costruzione sintattica che sostenga la storia che si vuole scrivere. Ma per fare questo ci vuole il talento, che è la prima cosa e del quale si può dire che o ci sta, o non ci sta.

Antonio Medici - Io con la mia domanda volevo tornare su Luna rossa e riallacciarmi al discorso iniziale sugli archetipi. Volevo sapere se la scelta di raccontare il mondo della criminalità organizzata non derivasse anche dalla volontà di distanziarsi dai modi cronachistici con cui viene raccontata solitamente la violenza, anche barbarica, che c'è dietro questo mondo. Volevo chiedere quindi se al di là della questione degli archetipi, delle situazioni che si ripetono nel corso della storia umana, non vi è anche il bisogno di sottrarsi al modo corrente di raccontare queste vicende.

Antonio Capuano - È verissimo. Si è sentita principalmente una particolare necessità, quella di dare una organizzazione, una struttura architettonica che non fosse quella dell'immediato realismo, per far diventare il film più forte, più lancinante, sempre qualora arrivi nella maniera giusta allo spettatore.

Dario Minutolo - Come nella vera tragedia greca gli eventi più cruenti, in luogo del coro che non c'è, avvengono regolarmente fuori scena. Non c'è mai un'adesione all'estetica cinematografica dell'omicidio, ma ancora di meno alla spettacolarizzazione da telegiornale. Luna rossa è un esempio di stilemi cinematografici che si susseguono efficacemente: l'uso del fuori campo, ad esempio, che paradossalmente in alcuni momenti dà ancora più risalto a ciò che sappiamo accadere ai lati dell'inquadratura. Avvertiamo un maggiore risalto perché la situazione diventa ancora più angosciante, più forte la percezione della violenza. Anche le musiche di cui parlavamo contribuiscono in maniera notevole. Il film, molto parlato, ha un inizio che parlato non lo è quasi per niente, a scatti, con spazio ai corpi degli attori e a certe ritmiche. Due canzoni attraggono particolarmente l'attenzione: c'è il brano Luna rossa, che si sente solo nel momento topico del film, e poi c'è Astrigneme, di cui ha già parlato Capuano. In alcuni momenti, in corrispondenza di un autentico crescendo tragico, c'è invece l'accompagnamento di musiche molto appropriate, molto ritmiche, che io non so individuare se siano rock, house o qualcos'altro ancora. Anzi, forse è il momento giusto perché sia io a chiedere delucidazioni.

Antonio Capuano - Può darsi che tu intenda in particolare la musica sui funerali, o la musica sulle cavalcate. In ogni caso, per parlare di questi momenti strumentali, è necessario ricordare la genesi di una preziosa collaborazione. Pensate che la mia idea iniziale andava addirittura in direzione di un film senza musiche. Figuratevi dove andava a finire un film così, in una tomba probabilmente. La realtà è che volevo fare un film ancora più nero e ancora più duro, quindi senza musiche. Invece Carlo, che vi ho presentato prima e che all'epoca ancora non conoscevo, ha avuto occasione di leggere la sceneggiatura, e poi l'ha passata a Raiss degli Almamegretta. Io mi sentivo preso in contropiede dalla proposta che la sceneggiatura passasse in mano a Raiss, proprio perché la loro musica già mi piaceva, e se mi fossero piaciute anche queste composizioni mi sarei trovato veramente di fronte al problema di inserirle. Raiss ha letto la sceneggiatura, quindi, e gli è piaciuta talmente tanto da chiamarmi addirittura mentre stava fuori dall'Italia, per dirmi: "Antò, io aggio scritto 'na canzone". A me questa cosa pareva proprio un miracolo, che lui avesse scritto una canzone alla sola lettura. Dopo quindici giorni, tornando insieme agli altri del gruppo da Londra, mi ha portato due CD, con un'ora e mezza di musica che io, appena sentita, ho direttamente preso e messo nel film, un po' qua e un po' là. Mi sembrava incredibile che loro avessero composto queste musiche sulla sceneggiatura. Generalmente non è così. Di solito succede che prima il musicista si vede il film, e soltanto dopo vengono fuori le musiche. Io ricordo di aver ascoltato in una notte quanto era stato composto, dopo essermi sdraiato a letto, e che ascoltando mi pareva di vedere il film. È una cosa pazzesca. Io ero già in fase di pre-montaggio e nessuno di loro aveva visto una sola immagine del film. Sarò stato 'mbriaco quella sera, ma sentivo queste musiche talmente belle che crescevano, per cui il giorno dopo, quando le ho appoggiate al film, allora mi è sembrato finalmente che il film cominciasse a respirare. Prima sembrava mancare di ossigeno.
Se ho tempo vorrei invece tornare sul discorso del rapporto tra cinema e televisione. Alcuni pensano che se Pasolini passa in televisione non sia comunque "televisivo". Io potrò sembrare brutale, ma ho un'opinione piuttosto radicale sull'argomento, e quindi mi regolo di conseguenza: tutto ciò che passa in televisione, è televisivo. Se Pasolini passa in televisione, viene trasformato: allo stesso modo se io vendo il mio film alla televisione, non posso neanche pretendere che il film non abbia interruzioni pubblicitarie, o cose del genere. Insomma, sono io a dare il film alla televisione? La televisione me mette i soldi intro 'a sacca? Allora basta, tutto finisce qui! Perché il mio film voglio che la gente vada al cinema a vederlo. Se mi è negata questa possibilità il resto cambia poco. Se però il mio film passa in televisione, io devo accettare che quanno guardo 'a televisione me fanno 'a telefunata, parlo con l'architetto, m'appiccico co' mia moglie... Scusate, così è la televisione! Io mica posso dire: "quando passa il mio film in televisione, il signore tal dei tali nun ha da ire intro 'o cesso". Invece anni fa c'è stata un'alzata di scudi degli artisti di cinema contro le interruzioni pubblicitarie. È 'na roba goffa, pure loro avevano i miliardi into 'a sacca. Ribadisco che faccio i miei film sperando che li si veda al cinema, ma nel momento in cui prendo i soldi dalla televisione, devo accettare quanto questo comporta, nel bene e nel male. Il cinema è una cosa troppo sacra, è un modo completamente diverso dalla televisione di fruire l'oggetto proposto.

Antonino Iuorio - Da parte mia vorrei confessare di essere rimasto molto deluso dalla infelice distribuzione del film, da come le cose sono state gestite per una pellicola che a Roma, ad esempio, è stata presente in poche sale, piccole o scomode da raggiungere. Il problema secondo me è che un certo tipo di cinema andrebbe sostenuto di più. Forse dico una banalità, ma se il film fosse stato effettivamente sostenuto, e la gente fosse stata informata in maniera migliore, le cose magari sarebbero andate diversamente. Faccio un esempio. L'altra sera sono andato a teatro a vedere Il Candelaio di Giordano Bruno, per la regia di Luca Ronconi. Si trattava di uno spettacolo bello, ma anche difficile, senza ammiccamenti al pubblico; eppure il pubblico c'era, essendo stata data la possibilità a questo tipo di teatro di essere visto, all'interno di un discorso che coinvolge le strutture parastatali e le organizzazioni legate al teatro della nostra città. Ora non capisco perché certi discorsi funzionano con il teatro e l'opera lirica, mentre nel nostro paese si pensa che aiutare a produrre un film sia già sufficiente. Un film andrebbe aiutato non solo ad essere fatto, ma anche ad essere indirizzato verso i suoi naturali fruitori, le persone.

Antonio Capuano - Non voglio certo fare polemica con te, Antonino, ma la penso diversamente: la gente comunque non ci va a vedere un certo tipo di cinema. Dobbiamo imparare a confrontarci con la banalità di certe situazioni e a vedere le cose per quelle che sono. Possiamo anche cimentarci con le analisi sui diversi perché, sulla situazione delle sale, della distribuzione, ma rimangono alla fine alcuni dati di fatto, che io preferisco prendere così come sono, piuttosto che atteggiarmi a vittima del sistema. Io sono consapevole di aver fatto un film difficile, sgradevole, scabroso, che alla fine della proiezione rischia di togliere l'appetito allo spettatore. Che cosa possiamo pretendere di più? Così come va, già mi pare che stia andando bene.

Dario Minutolo - Per me invece non possiamo liquidare così il problema della visibilità di molti film. Qualcosa di più in termini di visibilità Tornando a casa lo ha ottenuto, rimanendo per quattro settimane al Nuovo Sacher di Nanni Moretti. Se uno guarda solo al discorso degli incassi, anche così il film di Marra non ha guadagnato tantissimo, ma ha acquistato tanti spettatori che sarebbero andati persi, se il film fosse stato smontato dopo pochi giorni, come capita troppo spesso.

Uno spettatore - La conversazione di questa sera mi sembra arrivata ad un punto morto, forse perché si sente parlare del pubblico come fosse un fantasma, mentre le persone che compongono il pubblico hanno le loro motivazioni, che non derivano soltanto dalla loro personalità, ma anche da come nella nostra società si viene incanalati. La gente si abitua a quello che trova. Mi sono meravigliato, scoprendo che in posti come il Warner Village si incassa di più con quello che la gente spende per bibite e pop-corn, piuttosto che con i soldi spesi dal pubblico per l'acquisto dei biglietti. I discorsi anche giusti fatti in questa sede devono comunque fare i conti con le cose che spingono ad andare al cinema, cioè con un fattore culturale. Qui la cultura non ce l'ha più nessuno, caro dottor Martone... (risate tra il pubblico in sala, dopo il lapsus dello spettatore, nota del curatore).

Antonio Capuano - Questo lapsus mi fa pensare a un simpatico episodio che mi è capitato una volta per strada, verso Natale. Mi stavano chiamando alle spalle gridando: "Martone! Martone! Venga un attimo, che vorremmo intervistarla". Allora mi sono girato per dire: "Io veramente non sono Martone, sono Corsicato". Ecco la risposta: "Ah, lei è Corsicato, allora parliamo un po', parliamo un po'..." E così abbiamo cominciato a chiacchierare.

Un giovanissimo spettatore - Anch'io volevo dire qualcosa su quello che afferma Antonio Capuano sul cinema. Io sono un ragazzo che con il cinema ha lavorato sin da piccolo, per via dell'attività che svolgeva mio padre. Io, per quanto riguarda la mia esperienza, dò ragione completamente a Capuano. Prima di tutto, noi siamo abituati a vedere film di fantascienza, di effetti speciali, perché la televisione spara film di questo tipo, e per ragazzi come sono io, o anche per quelli più giovani di me, prevale la curiosità di vedere mondi lontani, storie paurose. Così alla fine il pubblico è diviso in gruppi, ci sono quelli che ne sanno di più sul cinema e quindi vanno a vedere film come quello di Capuano, poi c'è la massa che si accontenta dei prodotti più pubblicizzati. Io per questo dò ragione a Capuano; se però i proprietari delle sale cinematografiche abbassassero i prezzi, anche noi ragazzi saremmo più portati a vedere altri film, cercando di mettere a frutto questa possibilità di risparmiare.

Antonio Capuano - Saluto e ringrazio questo giovane spettatore, che si è presentato quasi come un discepolo.

Dario Minutolo - Il problema è che non esiste un circuito di sale disposto a fare cose del genere, a sostenere per esempio i film italiani nella loro circolazione. Lo Stato italiano quello che aveva lo ha lentamente e progressivamente consegnato alla concorrenza privata. Quello che auspicava Antonino Iuorio poco fa, che i film italiani vengano sostenuti non solo produttivamente, ma anche con una distribuzione adeguata, lo si dovrebbe considerare una cosa normale, e invece non lo è.

Antonio Capuano - Si è parlato parecchio della distribuzione e del pubblico, ma tra il pubblico mi ci metto pure io; quindi si può dire che ce l'ho anche un pò con me stesso. A proposito di un pubblico un po' particolare, vi posso raccontare che alcuni giorni fa ho partecipato ad un incontro all'Università Federico II , organizzato da un docente di storia del cinema, Pasquale Iaccio. Un mese prima era stata stabilita di comune accordo la data; al tempo stesso ero stato incoraggiato dal professore a portare un backstage di Luna rossa, visto che si sarebbe parlato del film, che intanto gli studenti avrebbero avuto tempo di vedere al cinema. Arrivati al giorno stabilito, mi sono presentato all'incontro, per poi scoprire che di duecento iscritti al corso soltanto due avevano visto il film. Io non mi capacitavo del fatto, che questi qui erano venuti all'università soltanto per scaldare le sedie, dopo essersene fregati alla grande di quello che il professore aveva consigliato loro. Questo lo racconto per dire che razza di gente si può incontrare tra il pubblico.

Mino Argentieri - Questi episodi dimostrano una cosa, che quando il cinema entra nell'università, diventa una materia. Allora ci sono studenti che credono che la storia del cinema si possa studiare a prescindere dai film. È capitato anche a me, insegnando all'Orientale di Napoli. Il problema grosso è che spesso sono i professori a pensarla allo stesso modo degli studenti. Quando proprio all'Orientale ho fatto presente la necessità di proiettare i film, molti colleghi sono caduti dalle nuvole. Per indurre gli studenti a sostenere gli esami conoscendo i film, ho dovuto introdurre l'obbligo non di seguire le mie lezioni, ma di vedere i film stabiliti. Così sono riuscito a decimare i miei studenti, dato che siamo partiti con circa quattrocento iscritti, per arrivare finalmente a fare un vero corso di storia del cinema con gente motivata, e non con gente che si trovasse lì solo pensando di preparare un esame più facile di altri e con maggiori attrattive. Gli studenti con questo sistema si sono ridotti a una cinquantina di elementi veramente interessati.

Antonio Capuano - Vorrei chiudere dicendo altre due parole sulla questione degli spettatori. Rispettare il pubblico per me significa non pensare al pubblico. Significa quindi evitare di fare il ruffiano e di cercare a tutti i costi di essere accattivante: questo è a parer mio il vero rispetto che si deve avere per la gente.

(L'incontro si è svolto presso la libreria Bibli di Roma, il 1° dicembre 2001)

(Trascrizione e sintesi a cura di Stefano Coccia)


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